Hanno provato a seppellirci, non sapevano che eravamo semi.
(Proverbio messicano)
La prima cosa che mi disse Gigi dopo avermi svegliato fu: “Mi aiuti un attimo che ho da macellare una bestia nella stalla?”. Lo seguii, lo riconosco, senza aver bene afferrato le sue parole. Quando fummo dentro al capanno però, nell’oscurità odorosa, rimasi immobile, come paralizzato. Lui se ne accorse non disse nulla e mi fece cenno di uscire. Così rimasi fuori e sentii lo strano imbarazzo che provano le persone che vengono dalla città di fronte alla realtà di campagna, alla natura. E alla morte. Invidiavo Gigi per come era riuscito a trasformarsi in un contadino provetto, lui che a scuola per anni era apparso delicato e minuto e come me sembrava destinato a una vita cittadina e a un lavoro di ufficio. Ma poi a vent'anni, come folgorato, era partito in bicicletta per Urbino e non era più tornato indietro.
Rimasi in piedi di fronte all’uscio della stalla, volgendo lo sguardo dalla parte opposta. Per alcuni minuti guardai la luce del sole nascente e lo straordinario scenario di colline lontane, poi, senza fare resistenza lasciai che i pensieri si spingessero oltre. Giunsi al ricordo di alcuni dipinti antichi e indugiai nel trovare corrispondenze con ciò che avevo davanti ai miei occhi. Seppure assorto riuscii a non perdere di vista la sagoma chiara di Gigi che, piegato sul giaciglio, completava l'opera. Udii tutto, i belati in allarme, il frusciare della paglia e rimasi per tutto il tempo teso, in ascolto. Cercavo di cogliere qualcosa, un verso più acuto, o forse un sibilo, un rantolo, qualcosa che mi sollevasse e mi facesse capire che era tutto finito.
Poi Gigi uscì come era entrato, a torso nudo. Questa volta però aveva sulle spalle un telo sudicio e stava chino sotto il peso di una grossa capra senza vita. Con indosso una felpa pulita, lo guardai con un misto di orgoglio e imbarazzo. Ma questa volta mi mossi e lo aiutai. Appendemmo l’animale legandolo per le zampe posteriori a una quercia. Gigi nel frattempo aveva affilato due grossi coltelli e dopo aver inciso la carcassa all’altezza delle cosce aveva tolto la pelliccia rivoltandola come un guanto. Subito dopo il ventre veniva squartato e tagliato in tutta lunghezza e le interiora fumanti asportate con gesti rapidi e precisi e presentate, una per una, prima di farle scivolare in un secchio: “Questo è il fegato, questi i polmoni...”. Una inaspettata lezione di anatomia che non dimenticai facilmente. “Datemi il cuore! Datemi il cuore!” esclamò all’improvviso una voce fuori campo con forte accento tedesco. Ci voltammo e riconobbi Oskar, l'amico austriaco di Gigi, mentre visibilmente affaticato allungava il passo per raggiungerci sulla cima della collina. “Strano vederlo in giro a quest’ora - disse Gigi con espressione divertita - con quello che beve alla sera di solito prima di mezzogiorno non si fa vedere. È evidente che ha in mente qualcosa. “Oskar - aggiunse Gigi - è un cuoco provetto, ci conosciamo da vent'anni. Quando arriva l'estate, chiude il suo piccolo ristorante in Moritzplatz, a Vienna, e viene a stare da noi per due mesi. Il suo obbiettivo è sempre stato chiaro: cucinare, mangiare e bere.”
“Guten Morgen Oskar” dissi notando la sua testa pelata imperlata di sudore. “Buongiorno, buongiorno” rispose prendendo fiato e lisciandosi i baffetti biondi con il dorso della mano. “Oggi, si festeggia l’anniversario della nascita del nostro Carlo, ultimo imperatore d’Austria. Lui era golosissimo di carne di capra. Visto che vedo un’eccellente materia prima mi offro per cucinarvi il cosciotto in stile imperiale con mousse di mele e marmellata di ribes rossi. Sentirete, una vera squisitezza. Ja!”. “Mi sembra un ottima idea” rispondemmo in coro io e Gigi. “E con il cuore cosa hai in mente di fare?” chiese Gigi curioso. “Ah, niente, solo una piccola cosa per spezzare l’appetito in attesa dell’arrosto, pensavo a dei crostoni di pane, come si usa da queste parti, con sopra un piccolo spezzatino di cuore e altre frattaglie miste cucinate con le erbe aromatiche del posto. E, naturalmente, i tuoi pomodori!” rispose Oskar e una luce parve illuminare i suoi occhietti da satiro goloso, sovrastati da sopracciglia esageratamente villose. “Ah, già, dimenticavo i pomodori! Te li avevo promessi. Ora finiamo questo lavoro e poi ti andiamo a prendere i bulgari...” disse Gigi e con il coltello tagliò con un colpo netto la testa della capra.
“Gigi, cosa sono i bulgari?” chiesi immediatamente “Come? Non te ne ho mai parlato? Ah, è una bella storia, vieni con me giù nell’orto che te la racconto” mi rispose sciacquandosi le mani in un vecchio secchio di alluminio. Ci incamminammo così tutti e tre per un sentierino di terra battuta che scendeva lungo il poggio e superata una radura ci ritrovammo in un’ampia zona terrazzata completamente ricoperta di piante da frutta, ulivi e lunghe prose di terra smossa coperta da verdura rigogliosa e arbusti in fiore. “Ah! L'Italia!” Pensai. E mi disposi interiormente al meglio per godere di quel meraviglioso spettacolo. Il paesaggio di fronte a me era un susseguirsi di colline a perdita d'occhio punteggiate qua e là da chiesette medioevali e vecchie case coloniche. Boschi e siepi delimitavano le proprietà creando un intreccio di linee di particolare armonia e bellezza. “Vicino a quella roccia, l’anno scorso, con il metal detector, trovai un’anfora romana piena di monete d’argento” disse Gigi mostrando un certo orgoglio. “Zappando la terra qui è normale trovare anche ceramiche dipinte del periodo rinascimentale, ogni centimetro di queste colline è disseminato da testimonianze di epoche lontane. Chissà che non sia questa età antica della terra il segreto della sua fertilità?”.
E dicendomi ciò staccò da una pianta rampicante un pomodoro carnoso e me lo mostrò dicendomi con fare solenne “Questo è un bulgaro!”. “Ma perché lo chiami così?” insistetti. “Tu sai che io ho sempre avuto due passioni, l’astrologia e la danza” mi rispose con freschezza come se fosse quella la risposta alla mia domanda. “Sì, ma non capisco, cosa c'entra con i pomodori bulgari?” ribattei allarmato. “Beh, c'entra... due anni fa partecipai a un importante festival di danze popolari a Sulina, in Bulgaria. Un luogo incredibile nel delta del Danubio. Lì ogni anno si radunano i più importanti gruppi di danza popolare d’Europa. Una festa che dura una settimana. Si balla, si beve, si mangia. Per poi riprendere a danzare. Un giorno tutto il nostro gruppo è stato invitato a pranzo ed è stato lì che ho visto dei grossi tegami di ghisa pieni di pomodori rossi, particolarmente carnosi, cucinati a fuoco vivo con le cipolle. È stata la prima volta che ho sentito quel profumo e quel gusto straordinari. Quarantacinque anni che vivo in Italia e ti posso assicurare che non esiste niente di paragonabile; no, neppure nel nostro profondo Sud. Andrei, il nostro amico bulgaro che ci ospitava, nel vedermi così colpito è andato in cucina e, tornato, m’ha infilato in tasca una busta leggera ridendo e ripetendo la parola “Semena, Semena”. La continuazione della storia la puoi intuire guardando questa abbondanza qui davanti a te. Le piante hanno attecchito meravigliosamente bene e la cosa divertente è che continuo a regalare semi di pomodori bulgari a tutte le persone che conosco e ormai anche qui in Italia siamo in parecchi. Li ho anche spediti per posta a un cugino che sta in Australia e lui ha fatto lo stesso l’anno dopo con un parente che vive a Bali. Chi li conosce rimane stregato, non vuole più nient’altro!” disse Gigi ridacchiando e facendomi cenno di guardare alla volta di Oskar che, dietro di noi, fischiettando, aveva nel frattempo messo in una cassetta almeno trenta grossi pomodori simili alla nostra varietà ‘cuore di bue’ e non sembrava per nulla intenzionato a smettere.
Mangiammo che erano le due, il sole a picco sulla collina, noi fortunatamente al fresco nella grande cucina della casa di Gigi. Presenti tutti, oltre a Gigi anche la moglie Gerda e i loro quattro figli. Il pranzo ritardò proprio a causa loro perché anche quel giorno, come altre volte, i marmocchi si erano resi irreperibili, impegnati nei boschi a costruire capanne o a inseguire animali selvatici. Ma anche a causa di Oskar che aveva pensato bene di celebrare il suo imperatore bevendo smodatamente già durante la preparazione delle pietanze. Per questa ragione il pranzo subì delle interruzioni, il cosciotto di capra non fu presentato perché semi carbonizzato e i pomodori bulgari anziché venire distesi sui preannunciati crostoni si trasformarono in un sugo per la pasta. Ma che sugo! Da parte mia, pur godendo di quell'allegra compagnia, passai gran parte del tempo a pensare a loro, ai pomodori bulgari, ma più ancora a quelle storie di semi. Non avevo mai pensato prima così tanto ai semi e mi colpiva il contrasto forte tra la nostra frenetica e complessa epoca ipertecnologica e la fragile delicatezza di quelle buste leggere spedite da una parte all'altra del mondo. E della forza tenace e potente di quei piccoli semi pronti a diventare, appena interrati, piante, arbusti e frutti profumati.
Ripartii verso sera. Nel bagagliaio della macchina tra bottiglie d’olio, vino, patate e pesche notai con sorpresa che qualcuno aveva aggiunto una bella cassetta di bulgari. Discesi la collina sentendomi ricco, con la sensazione di essere dentro a un mondo fatato, inebriato dal profumo di quei prodotti della terra ma ancora di più dalla consapevolezza di aver scoperto qualcosa di determinante. E col forte desiderio di condividerlo. Trascorsi i due anni successivi quasi ossessionato dal mondo dei semi al punto che non fui mai veramente appagato dagli esperimenti di orticoltura e dai pur copiosi raccolti di pomodori bulgari. Incominciai perciò anch'io a trafficare, spedire e scambiare semi tra gli appassionati. Poi sentii, pressante, la necessità di espandere le mie ricerche e lasciai che i concetti di seme e di semina invadessero anche la mia arte: sotterrai in stato di trance dei dipinti e scrissi della luce nel buio, teorizzai sulle leggi della natura, sulla vita e sulla morte. Senza mai smettere di scambiare i semi. Grazie a questa attività entrai in contatto con persone straordinarie. Tra queste, ebbi un giorno l'onore di poter annotare nella mia lista anche il nome di un archeologo di fama mondiale che coltivava nel suo giardino una varietà di grano nata da semi trovati in una piramide egizia. Un’altra appassionata, un’eccentrica signora inglese che aveva trascorso gran parte della sua vita a viaggiare, mi divenne amica e mi confidò un giorno di aver trovato l’amore della sua vita proprio grazie a uno scambio di semi. Ciò che mi colpì in realtà non fu la notizia in sé ma il fatto che con il marito novello, un anziano giardiniere svizzero di nome Pierre, la donna improvvisamente ritrovò la pace e non sentì più mordere dentro di sé il demone della partenza e l’impossibilità di mettere radici in un luogo. Insieme decisero di creare un grande giardino botanico sulle sponde del lago di Ginevra, con piante rare e un ricco frutteto di specie antiche delle quali molte si credevano estinte. Il loro catalogo di semi, già oggetto di culto tra gli esperti, da qualche mese annovera insieme a centinaia di varietà di mele di montagna, patate di tutti i colori e zucchine dalle forme bizzarre, anche il Solanum Lycopersicum ‘Bulgariae’, il delizioso pomodoro bulgaro.