“Orario di chiusura”: la musica suona la sua ultima nota, le luci si accendono per facilitare l’uscita del pubblico, poi si spengono nuovamente, dentro e fuori, e ognuno deve rimettere ordine ai propri pensieri che si riaffacciano tutti insieme, farci in qualche modo la pace e prendersi un lembo di notte, comodo il più possibile. Intanto nel locale vuoto il pianista è rimasto seduto al suo strumento e fissa un posacenere pieno di sigarette spente e un bicchiere di whisky appena versato.
C’è una storia che si racconta da sé dietro la copertina e il titolo dell’album di debutto di Tom Waits (“Closing Time”, 1973), un mondo già palpabile prima che il giradischi lo materializzi entrando nei solchi di un’anima e di una voce che canta un’America fuori dai canoni del momento, sia musicalmente che come filosofia. Storie di un’umanità difficile, sofferta, in fuga, eppure vissuta con intensità e innegabile romanticismo.
Waits (Pomona, California, 1949), la cui leggenda narra sia nato sul sedile posteriore di un taxi (ma qui è il suo “personaggio” a parlare, non l’uomo), è cresciuto col mito del jazz, del blues e degli scrittori della Beat Generation. Inizia a lavorare come lavapiatti e cameriere, però lui vuole “servire” la musica e gli interessa solo mettere le mani su un pianoforte e cantare i suoi racconti all’ombra del Sogno americano. Lo farà e, mentre si esibisce al Troubadour di Los Angeles, dove dal 1970 suonava ogni lunedì sera, verrà notato da Herb Cohen, manager di Frank Zappa, e successivamente dal produttore David Geffen il quale, colpito dalla performance sul brano “Grapefruit Moon”, tratterà con Cohen e procurerà al musicista un contratto con la Asylum Records. Il resto, nella definizione della scaletta di brani e di quel suono “in presa diretta”, secondo la migliore tradizione jazz, sarà completato dall’incontro con Jerry Jester, ex Lovin’ Spoonful, che curerà appunto la produzione di “Closing Time”.
Insieme troveranno la quadra di un suono ricco ma asciutto che evoca vecchi club fumosi (soprattutto quando imperniato su piano, contrabbasso, batteria e tromba) e non disdegna in varie occasioni di avventurarsi nel folk rock (con chitarre steel, chitarre acustiche e cori): succede nell’apertura “Ol’ 55”, pezzo dedicato da Waits alla sua macchina, una Oldsmobile, canzone che non a caso fu ripresa dagli Eagles, in “I Hope That I Don’t Fall In Love With You”, in “Old Shoes (& Picture Postcards)” e in parte in “Rosie”. Poi ci sono il blues di “Virginia Avenue” e di “Midnight Lullaby”, l’agitato R&B di “Ice Cream Man”, “Martha”, la ballad per eccellenza (da ascoltare pure la versione di Tim Buckley), l’introspezione malinconica di “Lonely” e il profumo del jazz degli anni ’40 nel trittico finale di “Little Trip To Heaven (On The Wings Of Your Love)”, “Grapefruit Moon” e lo strumentale “Closing Time”. Con testi che in modo tanto poetico quanto diretto parlano di viaggi inquieti, amori disperati e solitudine sopra melodie rétro reinventate nel presente, Tom Waits è già il nuovo cantautorato americano che sarà preso a modello da tutte le generazioni a venire.