Cagliari è un contrappunto. È la combinazione di melodie differenti che all’inizio non ti fanno capire nulla, poi s’incastrano. E a quel punto ti ritrovi dentro un ritmo in bilico tra il languore di un finis terrae e il vigore di un nuovo mondo, eredità di quel viavai del porto che da sempre spalanca e argina la città figlia del Mediterraneo. Un contrappunto di (almeno) quattro armonie.

La storia

Basta salire su uno dei sette colli (Cagliari, come Roma, Lisbona, Praga, Istanbul ha colline dalle quali contemplare giù) per infilare con lo sguardo le stratificazioni storiche: tracce nuragiche, neolitiche, fenice e cartaginesi come testimonia la necropoli di Tuvixeddu, la più vasta del Mediterraneo, che si estende nel cuore della città e dà il nome al colle omonimo; e poi potenti segni dell’Impero romano godibili nei resti dell’anfiteatro e in quelli di Villa Tigellio, nel quartiere di Stampace. E ancora: impronte bizantine nella Basilica di San Saturnino nel quartiere di Villanova e il medioevo che ha lasciato in città ricordi della dominazione pisana (la Torre dell’Elefante) di quella catalano-aragonese (il barocco della Chiesa di San Michele) e di quella sabauda (la Collegiata di Sant’Anna e Palazzo Regio, ampiamente restaurato nel Settecento). Cuore del medioevo è Castello, il centralissimo quartiere dove si entra attraverso le mura fortificate, dove svetta l’imponente Bastione di Saint Remy e si passeggia volentieri sostando in caffè eleganti e di tendenza. Altrove, Cagliari si spoglia di tanta storia antica per lasciare il passo a quella contemporanea, per esempio in architetture dirompenti tipo il T Hotel, grattacielo di vetro con stanze ultra comfort e vista panoramica a 180 gradi: al risveglio sai subito che tempo fa e di quale umore è il mare.

La natura (urbana)

E Cagliari, un tempo porto industriale di primaria importanza, mantiene un continuo dilago con il mare che ora accarezza, ora sprona l’urbe rammentandole che il segreto è guardare oltre l’orizzonte. E glielo ricorda anche su per i colli, quando lascia filtrare un infingardo profumo salmastro tra le vie arrampicate e strette o s’infila a valle tra le strade ampie e asfaltate percorse dal traffico veloce; l’odore delle onde si mescola tra i palazzi antichi e nuovi che appaiono e scompaiono dall’orizzonte secondo i pendii, finché l’effluvio marino conduce fino, per esempio, al parco del monte Urpino dove l’olfatto si bea di salsedine e lo sguardo cade laggiù, su uno stagno salmastro, dove la luce riflette come solo riflette nel Sud dell’Europa e allora Cagliari, capoluogo della Sardegna, diventa capo-luogo dell’anima tingendo l’orizzonte di rosa, come il colore dei fenicotteri che popolano quello stagno: il parco naturale Molentargiu, una delle più importanti aree umide d’Europa e sistema di stagni costieri risalente al pleistocene.

E se l’impatto dall’alto è notevole, entrare nella riserva ha dello straordinario, come straordinaria sa essere la natura. Per godersela, al Molentargiu è altamente consigliato fare il giro della salina a bordo di un trenino con guida e osservare sul ciglio di una distesa d’ acqua che evoca il Mar Morto, quell’oro bianco compostamente ammucchiato in attesa di essere lavorato. In alcuni tratti forma vere e proprie collinette, dietro la cui silhouette si dispiega lo skyline della città che è lì, a portata di mano, adagiata sull’altra sponda del grande stagno ma che da quest’angolo, più lunare che terreno, pare lontana anni luce.

Restare tra le saline fino al tramonto, nel silenzio, aiuta a sintonizzarsi con l’animus polifonico della città che è facile da abbracciare in lontananza come una scenografica cartolina delle meraviglie, ma difficile da afferrare nella sua multiforme unicità. Non fosse altro che per il continuo variare dei punti di vista e del sovente mutare la fisionomia grazie a riqualificazioni urbane frutto di progetti “umani”, come la chilometrica passeggiata lungo la spiaggia del Poetto o, dall’altra parte, quella di Sant’Elia che conduce all’omonimo quartiere periferico con il vecchio Lazzaretto, rinato centro culturale e artistico, sede di mostre. Più a sud, fa da contrappunto la natura brada intorno al Faro e a quell’angolo di paradiso in città che è Calamosca, baia sul mare turchese. Qui il canto degli uccelli e la risacca accompagnano la voce dei pescatori, che parlano una lingua già da sola musica.

Le note

Musica, sì. Ed è con lei che si coglie l’anima cangiante della città capace in quest’ambito di esprimere, tra l’altro, talenti in giro per il mondo: il primo flauto della Wiener Philharmoniker si chiama Silvia Careddu è cagliaritana ed è anche la prima donna a ricoprire quella posizione nella prestigiosa orchestra. Elena Ledda è una grande interprete di world music che da molti anni racconta questa terra ammaliando palcoscenici internazionali con canti ispirati alla tradizione, che la sua voce rende liriche universali. Spesso è accompagnata dal compositore e polistrumentista Mauro Palmas studioso e sperimentatore della musica mediterranea che si è trovato a condividere palcoscenici e spartiti con Lester Bowie e Don Cherry, Enrico Rava e Paolo Fresu.

Al fianco di questi e altri artisti, ci sono poi maestri come Luigi Lai, virtuoso suonatore di launeddas, strumento identitario sardo che ha origini antichissime, costruito con canne che in natura risuonano al vento. Protagonista nelle cerimonie religiose, si suona con la tecnica della respirazione circolare e quindi esige fiato infinito destinato a una causa incantevole: produrre polifonia, appunto. Ha diversi adepti tra i giovani e si insegna al Conservatorio di Cagliari sotto la direzione dello stesso Lai.

Le launeddas richiedono una speciale arte nella fabbricazione, soprattutto delle ance, e a Cagliari si può incontrare uno degli ultimi artigiani-costruttori, Luciano Montisci: il suo laboratorio è aperto al pubblico su richiesta. I suoni di canna sono così ipnotici da aver conquistato star come Philip Glass e intrigato musicisti jazz che da queste parti passano spesso, perché anche la “musica nera” ha un posto nella vita dei cagliaritani: il Jazzino storico club con pregevoli concerti e buoni piatti dalla cucina.

Il cibo

E la cucina, cuore pop di ogni cultura qui è spiccatamente identitaria, quindi ricca di contrasti già nella versione tradizionale, come insegna il cuoco Claudio Ara che gioca il menu su materie prime di piccoli produttori locali: carciofi, funghi kentos, cappero selargino, culurgiones ravioli di pasta fresca di grano duro ripieni di ricotta di pecora o di capra, uovo e zafferano; lorighittas, pasta a forma di orecchino fatta a mano; fregola, altra tipica minestra (tante ce ne sono che vale la pena regalarsi come souvenir un corso rapido per imparare a farle a casa: Cucina.eat shop e ristorante, è il posto giusto). E poi il menu di Ara prosegue con agnello sardo, suppasa cioè zuppa di pane raffermo, mieli e infine il pescato che a Cagliari ha un unico impero, il mercato di San Benedetto, quattro mila metri quadrati - uno dei maggiori in Europa – dove i venditori sono grandi, medi, piccoli e questo contribuisce alla varietà di offerta quotidiana.

E al mercato - che ha altrettanto spazio al piano superiore per ortofrutta, salumi, latticini, carni – fa la spesa anche lo chef stellato Luigi Pomata. Pure lui parte dalla tradizione, strizza l’occhio a influenze liguri-catalane e aggiunge pizzichi di folle estro. Nel mercato scovano sapori anche quelli della brigata di Josto ristorante il cui nome omaggia uno dei capi dell'insurrezione sardo-punica, per dire quanto siano territoriali. Eppure il loro menu, con gli azzardi gastronomici dello chef Pierluigi Fais, fa volare i palati oltre l’orizzonte dell’isola pur mettendo nel piatto tutti gli estremi che essa incarna nei sapori, nei colori, nei profumi, nei contrasti. Così, mentre degusti le linguine ti sembra di assaggiare una folata di vento e salsedine, di prati e roccia. La cucina è a vista, l’ambiente informale ma curatissimo, il design di gusto berlinese ma con il calore di una taberna lusitana, il sottofondo di musica moderna suona su un giradischi vintage: contrappunti, in perfetto stile campitanese.