Quello di Berlino viene tristemente ricordato come il più imponente e devastante rogo di libri della storia contemporanea. Allo scoccare della mezzanotte del 10 maggio 1933, in una delle piazze della città fu trasportata su carri trainati da buoi e data alle fiamme una quantità impressionante di opere considerate tra le più rappresentative di quella cultura “degenerata” di stampo ebraico (o genericamente non-tedesco) che il nuovo regime giudicava irrimediabilmente meritevole di essere annientata; 25.000 volumi, meticolosamente rastrellati per settimane all'interno delle biblioteche pubbliche e private dalle associazioni studentesche infervorate dalla sistematica opera di indottrinamento condotta dal Ministro della Propaganda Joseph Goebbels che in quell'atmosfera delirante di ebbrezza collettiva, tra fiaccolate e inni, inaugurò con le sue parole la triste era della censura di stato. Erano trascorsi poco più di tre mesi dalla nomina di Hitler a Cancelliere del Reich, solo due dall'attivazione dei primi campi di concentramento per gli oppositori politici e pareva ormai sempre più imminente l'avverarsi dell'agghiacciante profezia che lo scrittore Heinrich Heine poco più di un secolo prima aveva racchiuso nei versi di un'opera teatrale ispirata ad un altro rogo di libri “anti-tedeschi” organizzato nel 1817 dagli studenti delle corporazioni patriottiche presso il castello di Wartburg, e che così recitava: “...dove arde il libro, in fin si abbrucia l'uomo...”.
Anche Monaco, Amburgo e Francoforte furono teatro di altrettanti roghi che, seppur impediti in alcuni centri dalle avverse condizioni meteorologiche, erano stati tuttavia simultaneamente programmati in ben 26 città e che si protrassero fino al mese di giugno inoltrato. Quelli promossi dal governo nazista, del resto, furono solo alcuni dei tanti episodi accumulatisi nel solco di una lunghissima tradizione che, avviata – pare – nel lontano 1358 a.C. dalla volontà del faraone Akhenaton di cancellare ogni traccia del precedente politeismo dalla biblioteca di Tebe, si era via via consolidata attraverso la distruzione della biblioteca di Alessandria nel 642 e l'opera secolare della Congregazione dell'Indice, il Cile di Pinochet e la Sarajevo del conflitto balcanico, lasciando il proprio triste segno in una miriade di altri luoghi e di altre epoche in maniera del tutto trasversale alle culture e alle fedi religiose, finendo purtroppo per conoscere un rinnovato vigore ancora agli inizi di questo nostro XXI secolo nel drammatico incendio della Biblioteca Nazionale di Baghdad.
Per millenni moltissimi popoli avevano gestito la comunicazione di ogni sapere in condizioni di totale oralità; così si era fatto in India con i poeti-sacerdoti vedici, così si è continuato a fare per molto tempo nei paesi dell'Africa occidentale sub-sahariana con i griot o nell'Europa celtica con i bardi. Allo stesso modo, i Greci dell'età arcaica avevano riconosciuto un ruolo essenziale nel processo di produzione e trasmissione della cultura alle figure istituzionalizzate degli aedi, eleggendo questi “cantori di professione” a preziosi custodi della propria memoria storica, fatta di cosmogonie e genealogie, di norme comportamentali e principi giuridici, di rivoluzioni tecnologiche e progressi scientifici, di riti e consuetudini.
Dotati di una prodigiosa capacità mnestica, coadiuvata da anni di apprendistato e dall'indispensabile affiancamento di Mnemosyne (“Memoria” divinizzata e madre delle Muse), essi non solo traducevano quella sapienza in sequenze ordinate di espressioni formulari e sentenze proverbiali, la cui sintassi ritmica ne facilitava l'indispensabile memorizzazione; restituendola, poi, attraverso l'efficace modulazione della voce e una precisa gestualità del corpo in occasione di molteplici celebrazioni ed eventi collettivi, essi la mantenevano anche costantemente viva, permettendo all'intera comunità di assimilarla e di riconoscersi all'interno di un sistema ordinato e condiviso di valori. E accanto agli aedi, altre “memorie viventi” si muovevano in quello scenario, figure come gli mnemones (che sulle navi, secondo la definizione di Maurizio Bettini, fungevano insieme da “bolle di carico” e da “commissari di bordo”) e gli hieromnemones (incaricati in alcune città di ricordare il calendario liturgico).
La prima scrittura a tutti gli effetti “alfabetica” pare essersi sviluppata intorno al 2000 a.C. nella regione del Sinai ad opera di genti di origine semitica; sfociato nel più tardo proto-cananeo, tale embrionale sistema di registrazione consonantica diede poi origine all'alfabeto fenicio, a sua volta progenitore di quello aramaico e di quello greco che intorno al IX-VIII secolo a.C. iniziò a ricorrere all'impiego di specifici segni grafici anche per la notazione dei suoni vocalici. Un cambiamento a dir poco epocale, che via via grazie al ricorso a supporti materiali di archiviazione rese possibile lo stoccaggio e la diffusione di enormi quantità di dati, che liberò la parola dalla sua abituale fruizione collettiva e circostanziata aprendo la strada alla consuetudine della lettura silenziosa e personale, che conseguentemente favorì il ristrutturarsi degli stessi processi mentali promuovendo lo sviluppo autonomo del pensiero insieme a nuove capacità di analisi e di astrazione.
Qualche secolo più tardi, in piena alfabetizzazione, il grande Platone – forse uno degli autori più prolifici della grecità – scelse sorprendentemente di inserire all'interno di uno dei suoi più celebri dialoghi (Fedro 274b-275c) il mito di Theuth, ingegnosa divinità egizia, che un giorno si recò presso il re Thamus, per sottoporre al suo vaglio alcune delle proprie invenzioni; in risposta all'entusiasmo con cui il dio indicava nell'arte dello scrivere un efficace “medicamento” che fosse di supporto e di stimolo alla memoria dell'uomo, il prudente sovrano vi scorse al contrario la pericolosità di un “veleno” in grado di rinforzare la mera capacità di “richiamare alla mente” e allo stesso tempo di atrofizzare le facoltà di rimemorazione e di ricerca interiore innate nell'essere umano.
Contraddizioni incomprensibili di un pensatore che, mentre rivolgeva aspre critiche all'inadeguatezza educativa dell'epos quale fuorviante imitazione della realtà, non esitava a fare della poesia un efficace strumento pedagogico in mano ai Re-Filosofi reggitori del suo Stato ideale? che prendeva la distanze dall'antica saggezza mitologica e intanto elaborava mythoi dalla straordinaria bellezza e dall'immensa forza persuasiva? che soprattutto aborriva la muta fissità del testo scritto, accessibile a tutti e da tutti equivocabile, fondando d'altro canto su una vastissima quantità di opere – dotate, peraltro, di una raffinatissima veste letteraria – l'insegnamento dinamico e dialettico della propria filosofia? O piuttosto dimostrazione di rara lungimiranza da parte di chi, totalmente immerso nel contesto di una simile trasformazione mediatica, fu a tal punto capace di cogliere i vantaggi e i rischi della nuova pratica scritturale da arrivare a definirla come un pharmakon dalla natura mortifera non meno che terapeutica?
Nel 1953 Ray Bradbury concepì un romanzo destinato a diventare un cult della fantascienza distopica. Fahrenheit 451 è la temperatura che corrisponde ai 232 gradi della scala Celsius, quella alla quale in presenza di ossigeno la carta inizia spontaneamente a bruciare, anche se non è per autocombustione che i libri ardono nel capolavoro di Bradbury; in un mondo nel quale anche il solo atto di possederne è divenuto reato, essi vengono puntualmente inceneriti dagli stessi Vigili del Fuoco, spesso insieme alle intere abitazioni nelle quali vengono scovati, a volte persino insieme ai loro stessi proprietari. Erano trascorsi solo vent'anni da quell'infausto maggio berlinese e ancora si sentiva il bisogno di denunciare attraverso una vicenda estrema e disturbante le derive cui inevitabilmente si condanna una società che distruggendo il proprio passato finisce per negare a se stessa anche ogni possibilità di futuro.
Erano, invece, trascorsi secoli da quando Platone aveva fatto della memoria il fulcro della sua dottrina della conoscenza, distinguendo in maniera molto lucida i processi meccanici tesi all'automatica riproduzione dei dati immagazzinati (cui i mezzi tecnici esterni potevano dare un enorme contributo) dalle dinamiche ricostruttive del ricordo soggettivo e dell'identità personale (che, invece, quegli stessi mezzi potevano indebolire), eppure l'eco forte di quelle intuizioni continuava a farsi sentire, persino nell'esito che lo stesso Bradbury decise di confezionare per la sua storia. Dopo la conclusione dell'ennesima apocalittica guerra e l'annientamento della civiltà, è infatti agli Uomini-Memoria che egli affida il compito di serbare ciò che nel tempo essi hanno imparato dai volumi clandestinamente conservati, di trasmetterlo poi ai propri figli e così via di generazione in generazione in attesa di un tempo in cui, forse, si potrà tornare a mettere tutto per iscritto; una sorta di ritorno alla primigenia oralità, per ribadire a gran voce che ciò di cui i libri raccontano è destinato a sopravvivere persino alle pagine che lo contengono, a patto che non ci si stanchi mai di interagire con quelle pagine, di interrogarle, di imparare per mezzo loro a dialogare col mondo intero.