Compositore e scrittore campano, cantautore eclettico e dissacrante, Riccardo Ceres è stato definito dalla stampa "Cantautore Pulp". Si rifà alla poetica dei vari Piero Ciampi, Paolo Conte, Tom Waits con uno stile letterario personale, che ammicca alla Beat Generation.
Spaghetti Southern, partiamo dal titolo. Dicci tutto…
Se i film sono degli spaghetti western, il mio disco è uno spaghetti southern. Il sud è la “nuova” terra di frontiera, troppo spesso trascurato, deriso e lasciato a se stesso. In balia di bande organizzate che ne fanno quello che vogliono, con diligenza. Non è mai troppo tardi per cambiare le cose, bisogna cominciare farsi giustizia personalmente e armarsi sempre più: di cultura, passione e tolleranza.
Questo quarto album è una naturale evoluzione nella tua discografia o ci sono elementi nuovi che magari hanno sorpreso anche te?
In realtà avevo deciso di smettere con la musica, un po’ di problemi personali mi hanno tenuto lontano dal palco per qualche anno. Credo che più che un’evoluzione musicale sia stata proprio un’evoluzione personale a spingermi a mettere nuovamente la penna su foglio e le dita sulla chitarra. All’inizio sembrava tutto confuso, ma poi lo spirito del disco è uscito fuori e mi ha fatto capire che quelle parole avevano un senso e che c’era una direzione in cui camminare.
“Non si conosce l’Italia se non la si guarda da Sud” è l’incipit del disco: di cosa parla Spaghetti Southern?
Spaghetti Southern più che parlare racconta, racconta del mio sud e forse anche del vostro, perché il sud è di tutti. Sud del cuore, sud del basilico e dei pomodori, degli stereotipati luoghi comuni, del mare infinito, dello stringere i denti. Il sud del volersi bene, delle donne necessarie e del darsi una mano. Tutte queste cose a mio modo di vedere sono l’Italia migliore, quella che si vede nel momento dell’estrema difficoltà, quella ad un passo del punto di non ritorno. Qui al sud tutto questo è quotidianità, perciò consiglierei a tutti di partire da sud, anche perché partendo dal basso non si può fare altro che salire in alto.
Ogni cantautore ha il suo modus operandi, la sua ispirazione, il suo orizzonte: i brani di Spaghetti Southern hanno una matrice comune o ognuno ha una storia a sé?
Non so quale sia la mia, io scrivo e basta. In realtà è come se un demone si impossessasse di me, spesso mi rendo conto di quello che ho scritto quando ho finito di scrivere. Più che un metodo, o un modus operandi, è una necessità. Ogni disco è lo specchio di un periodo della mia vita, semmai un po’ romanzato ma sincero ed inevitabile.
Spaghetti Southern è un disco blues. Perché scegli il blues?
Credo che il blues sia la miglior colonna sonora per raccontare se stessi. Sono “solo” tre accordi, quelli indispensabili da raccontare e per raccontare. In varie forme lo si ritrova in tutti i sud del mondo. Per me è una sorta di cerimoniale religioso. In tutte le culture del sud del mondo le religioni più ortodosse sono costellate da riti pagani. Soprattutto nelle zone rurali la musica di queste cerimonie è composta dallo stesso giro armonico che si ripete ancora e ancora, fino allo sfinimento. Per raggiungere l’estasi mistica, per sentire e vedere quello che non si riesce a sentire e vedere nella vita reale. Per respirare a ritmo del respiro del mondo.
Spaghetti Southern è stato prodotto da Bruno Savino (SoundFly), come è nato questo rapporto?
Ci siamo incontrati per caso ad un concerto di un altro artista della sua etichetta. Dopo qualche chiacchiera ci siamo presentati e lui ha detto di conoscere il mio lavoro, che gli piaceva e che se avessi avuto dei brani da fargli ascoltare ne sarebbe stato molto contento. Avevo qualche provino: pare sia andata bene. Dopo un po’ di mesi è nato Spaghetti Southern, interamente prodotto da SoundFly, come si faceva quando la gente comprava i dischi. A mio parere Bruno è l’ennesimo eroe del sud, che coraggio.
Cantautore, compositore e scrittore: come vivono queste anime?
Sono la stessa anima. Quando scrivo canzoni immagino una storia, quando scrivo storie lo faccio ascoltando musica, in genere sempre lo stesso brano in genere jazz old school, Coltrane/Davis e i loro blues. Per dirla in maniera semplice «mi faccio i film» con la mia musica e le mie sceneggiature, i miei film. Ma in generale cerco di non pensare, cerco di scrivere e suonare e basta.
Riccardo Ceres si esprime meglio in studio o in concerto?
Sono due realtà totalmente diverse. In studio ascolto quello che ho fatto in fase di composizione, mi aiuta molto a capire se un brano funziona o è da scartare. Con l’apporto dei musicisti che eseguono con il loro stile quello che io ho pensato le cose si trasformano, spesso diventano ancora più belle quando le mie e le loro idee si sintonizzano sulla stessa frequenza. Il live è spettacolo, è condivisione, è le facce delle persone che ti comunicano la loro versione dei tuoi brani. È divertimento, è sudore, è chilometri, è cercare di far dimenticare per qualche minuto la propria vita a chi ti sta ascoltando. Anche a te stesso. È medicina. Dal vivo saremo in trio, una formazione che definirei un po’ Doorsiana, chitarra e voce, piano elettrico e batteria. Il mio pianista sarà anche bassista, utilizzando un altro piano synth.
Dal 2003 lavori come autore di colonne sonore, cosa hai imparato nel comporre per immagini?
Scrivere musica per i film non è poi completamente diverso da scrivere canzoni, anche sulle mie cose lavoro per immagini. Ma mentre nelle mie canzoni sono io il regista, nei film devo interpretare le idee di qualcun altro. A volte non è il massimo, avere paletti non è sempre motivante, a volte rende tutto molto più semplice, leggero, rilassante e divertente.
Cosa leggi, ascolti, guardi e mangi?
Leggo per lo più romanzi e poesie, li scelgo con cura, cerco di non farmi “contaminare” da alcuni stili di linguaggio che mi allontanerebbero dalla mia forma di scrittura. Ascolto molto jazz, blues, musica d’autore italiana (‘50/ ‘60/ ‘70), dell’americana preferisco Doors e Waits, ma anche cose più moderne. Adoro il funk e la musica cubana. Film ne guardo a iosa, cerco chiaramente cose di qualità ma non mi dispiacciono le commedie, ogni tanto fa bene un po’ di leggerezza. Più che mangiare cucino, per gli amici, per le donne, credo sia uno dei modi migliori di dimostrare affetto e con cui prendersi cura di una persona. Al sud facciamo così.
Spaghetti Southern Credits
Riccardo Ceres: voce, chitarre, banjo, armonica, bendir, Elektra piano
Fabio Tommasone: Rhodes piano, Hammond
Raffaele Natale: batteria
Vincenzo Lamagna: contrabbasso
Ciro Riccardi: tromba, flicorno
Andrea Russo: fisarmonica
Artan Tauzi: violoncello
Rebecca Dos Santos: percussioni