Bàktron in greco, baculum in latino. È il bastone del potere: scettro nelle mani dei re, mezzo di connessione con le forze naturali in quelle di maghi, sacerdoti, druidi e stregoni. Chi è privo di baculum è debole, non ha potere: è imbecillus.
Il primo strumento magico delle divinità archetipiche è stato il fuso delle tre Parche, che in quanto dominae del fato sono state le prime Fate. Il fuso riproduce simbolicamente l’asse dell’universo, che con il suo movimento rotatorio trascina l’impeto generativo della creazione. Il latino “fusus” partecipa etimologicamente del principio vitale del verbo greco “phýo” (genero, faccio crescere), e del sostantivo che ne deriva, “phýsis” (natura); nella storia delle parole il mito compie il suo viaggio dalla scintilla immaginativa al logos. Ne derivano il latino “fui” (sono stato, ho ricevuto vita) e la sua proiezione “futurus” (futuro, ciò che sarà). L’impulso circolare del fuso imprime il sigillo di ciò che è stato e genera nuovo destino. In seguito, in mani femminili, il bastone verrà sostituito da un ramo fatato: ed ecco la maga o la fata sfoggiare una bacchetta ricavata dal rametto di una pianta dalle virtù magiche, ma che possiede una forza pari al fulmine di Zeus, al lituo sacerdotale, allo scettro di un re. Un potere trasformativo eccezionale, lo stesso che Circe utilizzò per compiere le sue metamorfosi e ridurre la natura umana in forma bestiale.
Il bastone, che collega energeticamente la mano dell’uomo al suolo, smuove le energie della terra. Anche Ermes, il messaggero che accompagna le anime nel mondo infero, impugnava un caduceo alato, sul quale si avvolgevano due serpenti in continua lotta dinamica che riequilibravano e riappacificavano le forze complementari. Questo dio, che è anche guida dei sogni, con la bacchetta è in grado di indurre al sonno o risvegliare i mortali; nel caduceo che risana, rigenera e trasforma, l’albero sacro e il serpente, l’elemento tellurico e quello celeste, tornano a convivere in una sintesi energetica compiuta.
Possiede capacità di volo anche la scopa delle streghe, che come amazzoni dionisiache la inforcano per recarsi ai riti del sabba o ai cortei notturni della dea. Ne spalmavano il manico di un unguento preparato con erbe di magia oscura, come l’aconito, la belladonna, la mandragora, lo stramonio, il giusquiamo: piante capaci di trasportare lo spirito in un viaggio estatico, di suscitare visioni, condurre l’anima fuori dal corpo e oltre i confini della coscienza. Non diversamente gli sciamani si libravano nel cielo in stato di trance, cavalcando un bastone sormontato da una testa di cavallo.
Prima ancora che strumento domestico, la scopa è stata un oggetto rituale di purificazione dei luoghi di culto: riordina lo spazio sacro, raccoglie i resti, le scorie e la polvere che opacizza e toglie splendore negli angoli in cui si annidano le energie negative. Le sue setole si compongono di un fascio di sottili ramoscelli di erica o saggina, verbene o ginepro, erbe che scacciano gli spiriti malvagi. Nell’antica Roma, durante le feste chiamate Antesterie, si credeva che le anime dei defunti tornassero sulla terra per visitare i vivi: ma il tempo concesso era limitato, e prima che lo squarcio fantastico si richiudesse, con le scope si usava scacciare le anime che indugiavano impedendo di ristabilire l’ordine.
La scopa è rimasta nell’immaginario lo strumento per eccellenza dell’antenata totemica, e anche nelle fantasie fiabesche delimita lo spazio simbolico delle Grandi Madri, delle nonne archetipiche, delle streghe aiutanti. Nella fiaba russa, la Baba Jaga avanza appoggiandosi a una gruccia, il suo scettro di potere. Inoltre, si libra nell’aria a cavallo di un mortaio che incita col pestello, e con la scopa cancella le tracce che lascia dietro di sé. Gli strumenti che da sempre circoscrivono le attività femminili ne identificano anche il ruolo magico: il mortaio in cui vengono mescolate le erbe fatate, il pestello che le sminuzza, la scopa che spazzava le antiche are e che si rinnova onorando la sacralità dello spazio domestico.
La scopa della nostra Befana ha dunque una genesi remota, che ricongiunge questa figura del folclore a una stirpe di illustri progenitrici. Befana è una corruzione lessicale di Epifania, e lei è a tutti gli effetti un’epifania, cioè una manifestazione visibile, di una Madre Natura che dopo avere compiuto il suo ciclo vitale si assopisce in una morte apparente e temporanea, in attesa di rigenerarsi e rinascere come fanciulla in primavera. La scopa che la trasporta è un veicolo animato da un dinamismo misterioso: la sua linfa segreta è la stessa che scorre nelle fibre dell’albero della vita, possiede l’energia soprannaturale dei rami sacri e con la sua promessa di fioritura scaccia l’inverno e le sue tenebre annunciando il tempo della luce. Il volo della Befana è un viaggio astrale, sciamanico, e le terre che lei sorvola appartengono a una geografia dello spirito. Un viaggio che dagli inferi conduce al mondo dei vivi, già percorso nei millenni da altri spiriti femminili, quelli che nelle notti solstiziali sorvolavano i campi per benedire la terra che si preparava a tornare fertile. Sono la vetusta Hera, la florida Abundia, la notturna Ecate, la lunare Diana, la germanica Perchta, la nordica Holda: tutte hanno contribuito ad aprire quello squarcio sull’invisibile che l’antenata concede agli uomini, percorrendo un viaggio che ha come terminale il focolare domestico, centro simbolico della vita famigliare.
Nelle notti incantate tra il Natale e l’Epifania, i morti e i vivi si sfiorano. Trascorsa la dodicesima notte, tempo di meraviglie, con un sibilo la grande donatrice si appresta a scomparire, richiudendo dietro di sé il sipario fantastico. Il suo veicolo magico la riporta nel mondo degli spiriti, e gli uomini possono nuovamente ristabilire gli equilibri sconvolti e riappropriarsi dei codici delle leggi ordinarie.