Era indubbiamente difficile organizzare una mostra celebrativa della vita artistica di Marina Abramović, nota per le sue performance, una forma d’arte effimera che dura il tempo in cui l’artista la attua col pubblico. In conferenza stampa Marina dice di sé: "Fin dagli anni '70 ho sempre voluto lavorare con la performance e in questi 50 anni credo di aver reso la performance una forma d’arte veramente riconosciuta e credo che questo sia il mio speciale contributo ad essa". Pertanto riconosce lei stessa che la base della sua espressività in arte è la performance. Come tale, è legata indissolubilmente alla sua presenza.
La mostra di Palazzo Strozzi, la prima interamente dedicata a una donna, ha messo a sua disposizione tutto Palazzo Strozzi, dalla Strozzina ai piani alti. Il titolo The Cleaner, allude alla necessità che l’artista ha sentito di far pulizia del passato, in occasione di questa retrospettiva destinata a definire, per la prima volta in Italia, la sua complessità. Sono state scelte oltre 100 opere dagli anni Sessanta agli anni Duemila, video, fotografie, quadri, oggetti, installazioni e la re-performance di sue famose performance completano la mostra. La re-performance, inventata da lei per proteggersi dai furti di chi voleva mettere in mostra sue idee, ora protette da copyright e quindi utilizzabili solo su acquisto, non è l’ideale per mostrare il coinvolgimento emotivo che lei è stata in grado di suscitare, dal momento che viene eseguita da attori e danzatori, selezionati e formati all’uopo, in un avvicendarsi quotidiano secondo il daily live programmato. La Abramović, le accompagna con la sua voce registrata.
Iniziata nel 1965 la carriera come pittrice, la Abramović passa dopo pochi anni a realizzare performance. Durante una di queste, nel 1976, fa l’incontro con colui che diverrà suo compagno di vita e di ricerca, l’artista tedesco Ulay. A seguito della fine di questa relazione, nel 1988, Marina si butta nel lavoro, partecipando a pièce teatrali e creando “controfigure” addestrate con cura per eseguire le performance concepite con Ulay. Pressoché anonima quando con lui faceva dell’arte una professione in povertà, da single acquista una grande notorietà nel campo dello star system, più che in quello artistico. Questo periodo doloroso e insieme euforico è ben descritto nel documentario del 2012, intitolato The artist is present, importante soprattutto per trasmetterci la forza di alcune performance della prima parte della sua vita, fra il '73 e l’88, ma anche quella famosa al MoMa di New York del 2010, che dà il titolo al film.
Aver visto prima la mostra a Strozzi e poi questo film, rende evidente la superiorità del film rispetto all’esecuzione delle controfigure. In mostra si vedono quadri e video, si leggono didascalie esplicative, senza però riuscire a vivere appieno il significato delle re-performance, che va ben oltre ciò che la voce di Marina spiega ai visitatori, e che il film riusciva invece a trasmettere. In assenza dell’artista, l’unica stanza che dà un’intensa emozione è quella con le due grandi anfore rosse incastrate l’una nell’altra, a rappresentare il dolore di separare due esistenze così profondamente intrecciate. Marina e Ulay si sono fatti a piedi ognuno metà della muraglia cinese, percorrendola lei dall’estremità orientale, lui da quella occidentale. Si sono incontrati così per dirsi addio dopo una relazione di 12 anni. Un pezzo di vita che è stato racchiuso in una performance, The Lovers. Questo modo faticoso di por fine alla loro relazione, se è in linea con altri cimenti cui entrambi hanno sottoposto i loro corpi durante gli show artistici insieme, c’è da scommettere che sia venuto in mente a lei, quasi un tentativo di dare a lui il tempo di ripensarci. Era lui, non lei, a voler porre fine alla relazione perché innamorato di un’altra donna.
Dopo la separazione da Ulay, il mood delle performance della Abramović cambia. L’artista affronta la visualizzazione della morte, vuoi quando pulisce ossessivamente uno scheletro senza risultato perché l’acqua usata è sporca; vuoi quando si chiude in una stanza con montagne di ossa sanguinolente fra le quali si fa fotografare, intenta a scarnificarne alcune, in un’atmosfera quasi irrespirabile per l’odore del sangue. Quest’ultima performance, insignita del Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1997, trae ispirazione dalle guerre che hanno dilaniato la ex Iugoslavia (lei è serbo-montenegrina).
Al Piano Nobile di Palazzo Strozzi si alternano varie re-performance. Forse la prova più impegnativa per le performer in questa mostra è Luminosity, visibile qualche ora al giorno. A metà tra una crocefissione e l’Uomo Vitruviano di Leonardo, la performance costringe una donna, completamente nuda, a restare in equilibrio per trenta minuti su un sellino di bicicletta, con i piedi sospesi dal suolo, muovendo lentamente le braccia e le gambe. Un lavoro che vuole suggerire le potenzialità del corpo, quando è sorretto da un intenso scambio di energia con l’osservatore. La volontà riesce a imporsi sulla fisicità del corpo attraverso il controllo del movimento.
Oggi questa donna cui dobbiamo riconoscere forza, resistenza alla fatica e al dolore, coraggio di osare, ha 72 anni. Non ci stupisce che dal 2005 faccia eseguire ad altri le sue performance, per conservare, o meglio dare nuova vita a questa forma d'arte effimera che attualmente ha smesso di fare in prima persona. La formula della re-performance non è però la più opportuna per celebrarla. Il documentario, invece, riesce a trasmettere inalterata la sua forza. Andreste a una mostra di copie di quadri? È vero che a teatro si vedono spettacoli tratti dagli stessi testi, anno dopo anno, ma con la libertà di interpretarli. Qui cambia il corpo, ma le azioni debbono essere compiute esattamente come viene insegnato. Lo spazio lasciato all’interpretazione è volutamente annullato. E se un interprete riesce a trasmettere emozioni al pubblico, è altamente probabile che trasmetta le sue emozioni, non quelle di Marina.