In data 4 ottobre il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il decreto legge Sicurezza n. 113/2018, predisposto dal Ministro dell’Interno e approvato dal Consiglio dei Ministri nella riunione del 24 settembre 2018, concernente “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell'interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”.
Il decreto ha già superato l’esame del Senato e deve ora essere approvato dalla Camera dei Deputati entro il termine di sessanta giorni, per la sua conversione in legge come previsto dall’art. 77, comma 3, della Costituzione, altrimenti perderebbe di validità sin dall’inizio. Il termine scade il 3 dicembre ed è ancora aperto il dibattito sulla sua legittimità costituzionale, che sin dall’inizio è stata messa in dubbio e non solo dalle opposizioni, ma anche da numerosi ed autorevoli giuristi, oltre che da organi costituzionali.
Il primo di questi è stato proprio il Presidente della Repubblica che nel firmare il decreto per la promulgazione e la successiva pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ha inviato al Presidente del Consiglio una nota (non essendo applicabile nella materia dei decreti legge la possibilità prevista dall’art.74 della Costituzione, di rinviare la legge al Parlamento con un messaggio motivato per chiedere una nuova deliberazione). Nella lettera, dopo avere comunicato l’avvenuta firma del decreto, aggiungeva:
«Signor Presidente,
Avverto l’obbligo di sottolineare che, in materia, come affermato nella Relazione di accompagnamento al decreto, restano "fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato", pur se non espressamente richiamati nel testo normativo, e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia».
Un invito e un monito la cui importanza e solennità è di tutta evidenza proprio perché proviene dal supremo garante della Costituzione, che fa intravedere la possibilità di un successivo intervento di rinvio della legge per un secondo esame del Parlamento, ai sensi dell’art. 74 già citato.
Al Presidente della Repubblica ha fatto seguito il Consiglio Superiore della Magistratura con un articolato parere (50 pagine) redatto e approvato in sesta Commissione, che nella giornata del 22 novembre è stato approvato dal Plenum, sia pure a maggioranza. Il parere si occupa in primo luogo della soppressione dell’istituto della protezione umanitaria, una delle articolazioni del sistema di protezione, applicabile qualora non siano applicabili né lo status di rifugiato politico, né quello della protezione sussidiaria. La soppressione – secondo la Commissione del CSM potrebbe portare ad una “condizione di incertezza” dello status dello straniero, con il possibile “incremento del contenzioso ed un ritardo nella tutela dei diritti fondamentali degli stranieri vulnerabili”. Altri rilievi (dei quali non è possibile per ragioni di spazio dare conto), attengono alle incertezze sugli spazi rimessi all’applicazione diretta dell’art. 10 della Costituzione da parte del giudice ordinario e sulla durata massima del trattenimento (raddoppiata da 90 a 180 giorni) previsto per le procedure di identificazione dello straniero.
Appare indispensabile a questo punto prendere le mosse dal dettato costituzionale per ricostruire il quadro di riferimento necessario a parametrare la costituzionalità di ogni legge ordinaria. Sulla materia che ci occupa le norme costituzionali sono quelle degli artt. 2, 3 e 10. E di esse dovrà darsi rapida esposizione. L’art. 2 detta uno dei principi basilari ai quali la Costituzione è ispirata, come elemento costitutivo della comunità nazionale, la solidarietà. Esso infatti non solo “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, ma richiede (termine imperativo) “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. È la solidarietà dunque il principio che deve informare di sé il mondo del lavoro, della produzione, della proprietà privata e, non ultimo, il trattamento dello straniero.
L’art. 10 si occupa dei soggetti stranieri che entrano in contatto per i motivi più vari con il nostro paese. La formulazione della norma, come sostenuto dall’on. Dossetti all’Assemblea Costituente, parte dal presupposto che lo Stato dovesse riconoscersi “membro della comunità internazionale”. Su questo fondamento, di straordinario valore di contestazione anticipata di ogni tentazione nazionalsovranista, si regge la disposizione del primo comma, che dispone l’obbligo dello Stato a “conformarsi” alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto.
Ulteriore specificazione è contenuta nel comma secondo, quando si chiarisce che “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalle norme e dai trattati internazionali” (ai quali pertanto il diritto interno dovrà conformarsi). Decisivo è il comma 3, nel quale si assicura il diritto di asilo per “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”, rinviando alla legge le condizioni per la disciplina delle condizioni e delle modalità di riconoscimento di tale diritto. Diretto corollario è il comma 4 nel quale si stabilisce che “non è ammessa l’estradizione dello straniero per motivi politici”.
Le disposizioni dell’art. 3 Cost., lette nel loro insieme, costituiscono quello che la dottrina ha definito come “diritto di asilo costituzionale”, una nuova figura di diritto soggettivo, inviolabile proprio perché costituzionalizzato, il quale pur non avendo avuto un’attuazione legislativa nazionale, tuttavia ha avuto una molteplice valenza giuridica. La prima è quella della immediata e diretta applicabilità da parte del giudice italiano, attraverso il riconoscimento del diritto d’asilo, compresa la facoltà di imporre all’autorità amministrativa (il questore) di rilasciare il permesso di soggiorno a chi fosse stato riconosciuto titolare del diritto di asilo. Sia pure con ritardo la Corte di Cassazione, con la sentenza a sezioni unite n. 4674 del 1997, riconobbe un “vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo, anche in mancanza di una legge che, del diritto stesso, specifichi le condizioni di esercizio e le modalità di godimento”.
La seconda è il riferimento al “territorio della Repubblica” che chiunque si trovi nella situazione di perseguitato politico deve essere messo in grado di raggiungere, con il divieto per i pubblici poteri di porre ostacoli a tale obiettivo, ed anzi con l’obbligo che essi hanno di attivarsi per agevolarlo.
La terza conseguenza è quella derivante dall’intervento, negli anni successivi, di convenzioni e norme internazionali, alle quali il nostro ordinamento ha provveduto a “conformarsi” secondo il dettato dell’art. 10. In tal modo la disciplina internazionale e sovranazionale viene ad assumere valore di integrazione ed applicazione della norma costituzionale, assumendone il carattere di inderogabilità anche rispetto ai rischi di interventi riduttivi nella tutela dei diritti fondamentali degli stranieri. Non può tuttavia sottacersi che il ritardo e le debolezze del legislatore italiano in materia ha determinato dei vuoti legislativi che oggi autorizzano tentativi di normazione legislativa (addirittura per decreto-legge) tendenti a ridurre le ipotesi di misure di protezione, ma soprattutto di ostacolare in maniera del tutto illegittima, l’arrivo in territorio italiano di profughi richiedenti le misure di protezione previste dal diritto internazionale (vedasi in particolare la soppressione della protezione umanitaria nel Decreto Sicurezza e le misure di respingimento in mare).
La prima disciplina di diritto internazionale è data dalla Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati del 28 luglio 1951, su iniziativa dell’O.N.U., ratificata in Italia con la legge n. 722 del 1954. Le norme della Convenzione furono successivamente modificate ed integrate dai Protocolli di New York del 31 gennaio 1967, ai quali l’Italia si conformò con la legge di ratifica n. 95 del 1970. Di tale documento si cita in primo luogo l’art. 1 che riconosce lo status di rifugiato “a chiunque si trovi nel giustificato timore di essere perseguitato, per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche”.
Quindi l’art. 31 stabilisce “Gli Stati Contraenti non prenderanno sanzioni penali, a motivo della loro entrata o del loro soggiorno illegali, contro i rifugiati che giungono direttamente da un territorio in cui la loro vita o la loro libertà erano minacciate nel senso dell’articolo 1, per quanto si presentino senza indugio alle autorità e giustifichino con motivi validi la loro entrata o il loro soggiorno irregolari”.
Chiude la citazione della Convenzione, l’art. 33 laddove, al primo comma, dispone che “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. Fanno ovviamente eccezione i casi in cui il singolo rifugiato o richiedente asilo costituisca pericolo per la sicurezza nazionale o abbia riportato condanna per reati gravi che costituiscono una minaccia per la collettività.
La misura di protezione assicurata dallo status di rifugiato è stata successivamente integrata dalla Direttiva Europea n. 83 del 2004 (confermata con modifiche dalla Direttiva 95 del 2011) recepita in Italia dal Decreto Legislativo n. 251 del 2007, con la previsione della “protezione sussidiaria”, riconosciuta a colui che pur non avendo fornito prova di avere subito una persecuzione personale e diretta, dimostri tuttavia il rischio di subire un grave danno (come condanna a morte, trattamenti inumani, tortura), nel paese di origine per effetto della sua appartenenza alle categorie di cui all’art. 1 della Convenzione di Ginevra (razza, lingua, religione, appartenenza a determinati gruppi sociali, opinioni politiche).
A completare il quadro delle misure di protezione dello straniero, è poi intervenuta la Direttiva n. 115 del 2008, laddove si stabilisce che “In qualsiasi momento gli Stati membri possono decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura, un permesso di soggiorno autonomo o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a uno straniero (ne costituiscono esempio epidemie, carestie, disastri ambientali, sconvolgimenti politici”). Tale misura, da definirsi residuale ed aperta, chiude il cerchio delle forme di tutela del diritto di asilo politico costituzionale, tale da escludere margini ulteriori di applicazione diretta dell’art. 10, terzo comma, della Costituzione. (In tal senso Corte di Cassazione n. 39 del 2011 e n. 40 del 2013). La Direttiva comunitaria è stata recepita in Italia dall’art. 5, comma 6 del Decreto Legislativo n. 286 del 1998.
Il principio del divieto di respingimento (non refoulement) costituisce un punto comune a tutte le direttive e le norme nazionali e internazionali citate, e trova fondamento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nella quale all’art. 19 viene sancito al primo comma che “Le espulsioni collettive sono vietate”. Segue, al secondo comma, la disposizione secondo la quale “Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre forme di trattamenti inumani o degradanti”.
È utile ricordare (soprattutto ai nostri improvvisati legislatori) che l’Italia è già stata sanzionata per la violazione di tale divieto. La Corte EDU, con sentenza del 23 febbraio 2012 n. 27765/2009, ha stabilito una serie di principi di enorme rilevanza sul piano giuridico e su alcune delle situazioni di fatto che ricorrono assai spesso nelle vicende della repressione del traffico dei migranti ad opera del nostro governo. In sintesi, la Corte ha condannato l’Italia per il respingimento in alto mare dei profughi eritrei e somali avvenuto nel maggio del 2008, equiparando il respingimento alla frontiera o in alto mare all’espulsione di chi si trova già sul territorio nazionale, in applicazione dell’articolo 4 del Codice della Navigazione, secondo il quale “Le navi italiane in alto mare e gli aeromobili nello spazio aereo non soggetti alla sovranità di uno Stato sono considerati territorio italiano*”.
La Corte ha quindi condannato l’Italia sia per avere violato il divieto di espulsioni collettive, che per violazione dell’art. 3 della CEDU, avendo esposto i migranti al rischio di essere sottoposti a maltrattamenti in Libia e di essere rimpatriati in Eritrea e Somalia, ed infine per violazione del diritto ad un effettivo ricorso giurisdizionale contro il respingimento e, implicitamente, del diritto potenziale di ottenere diritto di asilo. Secondo la Corte, la Libia non poteva essere considerato un paese sicuro in termini di diritti umani e del diritto dei rifugiati, dal momento che la situazione delle persone arrestate e detenute in Libia, compresa quella dei migranti - che sono stati esposti anche ad essere deportati in altri paesi - indicava che le persone respinte in Libia erano a rischio di maltrattamenti.
Da quanto sin qui esposto, ciascuno potrà valutare come la politica dell’attuale governo italiano si sia posta in palese contrasto con i principi costituzionali (dei quali fanno parte integrante quelli previsti da norme di diritto internazionale e comunitario), sia per quanto riguarda la politica dei respingimenti, sia in ordine alle norme contenute nel Decreto Sicurezza, che sopprimono la protezione umanitaria, parte integrante del sistema nazionale di protezione dello straniero, ovvero del diritto costituzionale di asilo. Altri aspetti sui quali sarà utile ritornare in un prossimo articolo sono quelli relativi alla concessione e revoca della cittadinanza, all’interruzione delle esperienze di integrazione in atto con conseguenze negative sul piano della sicurezza pubblica e della dignità dei migranti.