Non è infrequente che le lingue tengano traccia degli importanti passaggi semantici cui le parole a volte vanno incontro; investite dagli imprevedibili mutamenti che l'inarrestabile scorrere del tempo inevitabilmente determina, alcune vedono irrimediabilmente affievolirsi il carattere descrittivo che avevano originariamente assunto all'interno dei rispettivi ambiti di pertinenza, caricandosi di nuove insospettabili valenze.
È il caso, ad esempio, di termini quali cafone (adottato soprattutto dai dialetti meridionali a indicare propriamente il contadino, probabilmente derivato dall'osco cafà “cavità” o dal latino cavare “scavare”, “rivoltare la terra”), bifolco (risalente al latino bubulcus o bufulcus “guardiano di buoi”, “guida dei buoi nell'aratura”), o ancora burino (il bracciante romagnolo che lavorava le terre dell'agro romano), buzzurro (titolo riservato in Toscana ai montanari che scendevano a valle per vendere i loro prodotti) e infine villano (precisamente “abitatore della villa” che altro non era se non la “campagna”); tradizionalmente legati alla realtà dei campi - da sempre celebrata quale simbolo di purezza e innocenza, e allo stesso tempo assunta ad archetipo di arretratezza e miseria - testimoni silenziosi del definitivo consolidarsi, specie dopo l'Unità d'Italia, di un differente modello gerarchico che a partire dal Medioevo aveva progressivamente riconosciuto nella città il centro privilegiato di produzione e di diffusione della conoscenza e del progresso, essi hanno a poco a poco cessato di riferirsi alla semplicità delle condizioni di vita del contesto rurale e all'umiltà dell'estrazione sociale dei suoi protagonisti, per passare piuttosto ad indicare in maniera assolutamente sprezzante e offensiva la bassezza morale di individui giudicati rozzi, gretti, volgari.
Non dissimile il destino della voce troglodita della quale è solitamente assai noto il valore traslato di “cavernicolo”, “triviale”, “primitivo”, ma di cui forse non è altrettanto nota la genesi. In uso sia presso i Greci (cui per l'esattezza risale l'etimologia stessa del lemma, composto da trogle “caverna” e dal tema di una radice dyo che rimanda all'atto di “inoltrarsi in un luogo”) sia presso i Romani (Troglodytae), esso è di fatto il nome proprio con il quale gli studiosi identificano i gruppi umani che fin dal Paleolitico avevano iniziato a insediarsi in vere e proprie dimore rupestri scavate nella roccia o ricavate nel tufo in moltissime aree del Mediterraneo; del cosiddetto “trogloditismo” offrono ancora oggi stupefacenti attestati le numerose lame e gravine sparse sul territorio pugliese e lucano, l'isola di Djerba o una regione piena di fascino come la Cappadocia.
Ma da dove nasce questa tendenza a estrapolare da contesti specifici denominazioni di segno assolutamente neutro e a trasformarle in espressioni volutamente peggiorative volte a qualificare singoli uomini o intere categorie umane di cui troppo spesso s'impone irrinunciabile l'urgenza di stigmatizzare un atteggiamento, di cristallizzare un tratto o una movenza? E ancora, è questa una propensione rintracciabile esclusivamente in noi moderni? Sulla base di alcuni interessanti documenti prodotti in tempi remoti e dunque apparentemente insospettabili, parrebbe proprio di no. Stando a Erodoto (Storie IV 183) e al più tardo Plinio il Vecchio (Naturalis Historia V 45), infatti, alcune delle popolazioni definite appunto Troglodite – dislocate dai Greci e dai Romani in una regione molto ampia che si estendeva dal Caucaso all'India, passando per l'Egitto e l'Arabia – si sarebbero nutrite di serpenti e lucertole, e non sarebbero state in grado di articolare alcun suono che fosse minimamente comprensibile, se non versi assolutamente sgradevoli e del tutto simili all'acuto stridere dei pipistrelli.
Affermazioni molto forti che sembrano dare conferma di quella che gli antropologi riconoscono come una vera e propria predisposizione naturale, da sempre operante in noi perché da sempre dettata dalla nostra stessa struttura cerebrale, un'autentica capacità strategica alla quale ricondurre addirittura la sopravvivenza della nostra specie attraverso i millenni: una connaturata attitudine all'elaborazione di rigidi schemi mentali che facilitassero la valutazione della realtà circostante e ne velocizzassero la successiva indispensabile connotazione (positiva o negativa che fosse), un'ancestrale (è proprio il caso di dirlo) inclinazione a elevare preconcetti e stereotipi al rango di insostituibili strumenti cognitivi, del tutto funzionali alla lettura del mondo.
Affermazioni, dunque, dalle quali emerge chiaramente come già gli antichi non esitassero ad attribuire a genti “altre” da sé, seppur pressoché sconosciute (o forse proprio perché tali?) comportamenti che ai loro civilissimi occhi risultassero quanto meno discutibili, se non addirittura abominevoli, e che richiamano prepotentemente l'attenzione sui due parametri che anche dai Greci e dai Romani erano ritenuti essenziali alla delineazione di chi fosse da considerarsi meritevole del titolo di anthropos, dell'appellativo di homo; se il cibarsi di rettili era classificato quale requisito indegno di un essere umano e costava addirittura l'esclusione da qualunque consesso civile, l'estraneità del linguaggio era percepita di gran lunga come la più drammatica, come il principale ostacolo alla possibilità di pensare il “diverso” senza cedere alla tentazione di sminuirlo o di svalutarlo. Fu significativamente questo l'elemento dal quale si formò anche il termine barbaros che analogamente a quelli sopracitati ha conosciuto nel tempo una lunga storia di risemantizzazioni e di riutilizzi, ma che molto più di quelli ha il deplorevole merito di aver lasciato un marchio indelebile sulle modalità secondo le quali i popoli della storia hanno via via strutturato le loro relazioni e continuano purtroppo a strutturarle.