Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato questo momento. Doveva arrivare, era inevitabile. Nel mio mondo letterario c’è una grande passione, e questa passione prende il nome di Moby Dick, il capolavoro di Melville.
Io funziono così: più una cosa mi piace, più non ne parlo. È strano, lo so. Prendetela come una di quelle strane idiosincrasie delle quali è tristemente affetto chi per costume e piacere frequenta più i libri che le persone. In virtù di questo, e in tanti anni che mi capita di scrivere (o anche semplicemente di parlare con qualcuno) difficilmente ho tirato in ballo il libro in questione. Un po’ per gelosia, perché condividere ciò che penso del libro è come condividere un’emozione che tocca nervi e cuore, un po’ perché in proposito è stato detto così tanto e così bene da persone migliori di me che io sarei giusto in grado di ripetere l’ovvio. Inoltre – problema non da poco – sento che per avere la presunzione di trattare un libro del genere si debba essere davvero di alto ingegno, acume e preparazione, cosa che io non credo di avere. Ed è per questo motivo che stavolta – avendo deciso di parlarne perché a detta di incipit ne è giunto il momento – i più attenti di voi si saranno accorti che il tono di questo articolo scende di un paio di gradini verso la colloquialità piuttosto che il linguaggio tecnico. Inoltre, sono reduce dalla rilettura de La bustina di minerva di Eco e ho ancora in bocca il sapore della sua straordinaria loquacità, così bella e così semplice, che ancora una volta mi ha sedotto. Capitemi.
Tornando a Moby Dick, sì, la tentazione di parlarne l’ho avuta. Ma ho sempre desistito. E nel frattempo lo rileggevo, arrivando a un totale di sette volte. Poco tempo fa è stato il turno dell’ottava, un desiderio nato veramente dal nulla. Che poi proprio nulla non è, perché ero seduto su una panchina in un parco e guardavo il paesaggio (avendo il mare sullo sfondo, tra l’altro), quindi era un nulla che conteneva tutto. Il leitmotiv che ha caratterizzato questa ottava lettura era la felicità: ero felice di leggere, ma più ancora ero felice di stare per leggere. Provo a spiegarmi: il libro ormai lo conosco, la sequenza di certi capitoli in particolare mi è più che familiare, quindi a volte capitava che mentre leggevo un capitolo già sapevo quale sarebbe stato il prossimo e cosa avrebbe contenuto. E se magari era uno che mi piaceva particolarmente (tipo quello in cui viene introdotto Achab) lo aspettavo sorridendo come chi sa già che da lì a poco riceverà un regalo. E quindi ero felice per quello che stavo per leggere. Da questa esperienza, giunto alla fine del libro, mi è rimasta tanta di quella felicità che stavolta ha traboccato e quindi ho deciso che era arrivato il momento di parlare di Moby Dick.
Faccio però una premessa, così chi vuole può interrompere la lettura. Sto per parlare del libro dando per scontato che chi mi legge lo abbia letto a sua volta, o quanto meno ne conosca la storia. Tuttavia non è neanche detto che voi dobbiate essere preparati sull’argomento: semplicemente non sto per fare né un’analisi né un riassunto. Mi soffermo solo su alcuni aspetti. E ho scelto di trattare tali aspetti più o meno nel modo in cui, tra amici, discuto di film o fumetti, soffermandomi sui dettagli che mi offrono lo spunto per un ragionamento. Gli aspetti in questione sono tre, e il primo è il mare.
Il mare di Moby Dick mi piace tanto, perché è l’unico tipo di mare che mi dice qualcosa. Non è il mare degli ombrelloni, della costa e soprattutto non è il mare del sole. È la tavola piatta, glaciale, eterna. Che non si sa se fa più paura quando urla in preda alla tempesta o quando è calmo, senza vento e somiglia a una marmorea lastra tombale.
I Greci avevano due modi di chiamare il mare: c’è la Θάλασσα (“tàlassa”) che è il mare limpido, azzurrino, autostrada dei commerci e delle scoperte, e poi c’è il Πόντος (“pòntos”), il mare scuro, ignoto, violento, che si scuote di dosso quei gusci di noce che gli uomini chiamano navi, e che inghiotte anime, corpi e nomi, e non restituisce ossa per la sepoltura. Il mare di Melville è figlio di quest’ultimo, con la sola particolarità che non è scuro ma bianco. Cadaverico, freddo, disumano. Ed è per questo motivo che da tale scenario e dal libro intero si staglia nerissima – dentro e fuori – la figura di Achab che nel capitolo “Le candele” dice: “sebbene tu sia luce, tu guizzi dalla tenebra. Ma io sono tenebra che guizza dalla luce”.
Non so a voi, ma questo contrasto cromatico – e lo dico da pittore – mette di per sé i brividi addosso, esattamente come quando si guarda quel capolavoro di quadro che è Il viandante sul mare di nebbia di Friedrich. Ma attenzione, il bello non finisce qui. Poiché nel libro non c’è uno spigolo che sia monodimensionale, tanto il mare quanto Achab non sono né unilaterali né antitetici. Perché quel mare è anche il mare della libertà e del respiro ampio (Ismaele stesso dedica una dissertazione su quanto trovi angusto limitarsi alla terraferma, che ti sporca la scarpe e ti fa camminare inciampando), e a riconoscerlo è lo stesso Achab, che pure ha i suoi momenti di dolcezza, durante i quali si concede la contemplazione di un pacifico cielo sereno. Ecco quindi uno dei motivi per cui Moby Dick è straordinario: perché pur essendo una contrapposizione netta (di volta in volta la critica ha parlato di uomo-natura, bene-male, morte-vita), in realtà non lo è mai fino in fondo. Perché del resto la vita stessa non è netta, ma sfumata. Controversa.
Il secondo aspetto è l’essere che dà il nome al libro. Quando sento qualcuno chiamare Moby Dick “balena” in genere gli rivolgo uno sguardo accigliato e preciso “non è una balena, è un capodoglio”. Intendiamoci, non è una precisazione necessaria e anzi il libro stesso ha come secondo titolo “the whale” cioè “la balena”, e l’opera inizia con dissertazioni etimologiche e storiche sul termine “whale”, declinato in più lingue. Tuttavia una buona ragione per non intitolare il libro con il nome del cetaceo c’è: in inglese “capodoglio” si dice “sperm whale” dove “sperm” indica proprio ciò che possono supporre anche i non anglofoni. Il tutto perché nell’Ottocento si pensava che la sostanza oleosa di cui il capodoglio è ricco e considerata preziosa perché usata in mille modi diversi fosse il liquido seminale della balena. Oggi sappiamo che non è così, è un liquido (alloggiato nella parte frontale del cetaceo) che ha principalmente la funzione di aiutare il galleggiamento e l’inabissamento della creatura marina (che mediamente pesa quaranta tonnellate e misura quindici metri di lunghezza).
Melville stesso nel libro ipotizzò che aiutasse anche a speronare le altre creature del mare nonché le navi, ma la scienza parve confutare questa ipotesi fino a quando, recentemente, i biologi si sono parzialmente ricreduti ammettendone la possibilità. L’imponenza di questo “mostro” del mare pervade il libro e gli dà struttura: è impossibile trovare un momento della storia in cui non aleggi il suo spettro. Si è confrontato spesso Moby Dick con la Bibbia, e in tal senso potremmo dire che Dio sta alla Bibbia come il capodoglio sta al libro.
Terzo e ultimo aspetto è colui che è allo stesso tempo protagonista, antagonista e deuteragonista. È Achab. Protagonista perché attore principale, antagonista perché complementare opposto della creatura cui dà la caccia, deuteragonista perché è oggetto del racconto di chi sta effettivamente narrando la storia, Ismaele. Come se il libro seguisse le tecniche narrative della moderna cinematografia, la sua entrata in scena è ben misurata: per capitoli interi non lo vediamo, sappiamo solo che è rintanato nella sua stanza sulla nave e che sta lì come presenza misteriosa. Poi d’un tratto compare in scena e si presenta come una figura che diventerà poi l’archetipo dell’eroe tenebroso e tormentato. Taciturno, scontroso, ferreo, risoluto, carismatico.
Sono molti i personaggi che attingeranno a questo prototipo. Il batman dei fumetti è uno di questi, per fare un esempio nella cultura pop. Ma Achab, come tutti i grandi personaggi, non si esaurisce in una definizione. Ha molteplici sfumature che testimoniano la psicologia di un carattere in conflitto, sebbene deciso a compiere il suo destino. Risulta difficile giudicarlo, perché lo squarcio nella sua coscienza è talmente profondo che non si riesce a prendere una posizione in termini di buono-cattivo o giusto-ingiusto. Achab è un sistema complesso di giudizi e ricorsi in appello, una verità del mondo, eterna e sfuggente. In letteratura esistono pochi personaggi così grandiosi. E per nostra fortuna nella storia della letteratura c’è Moby Dick.