Spesso ho avuto modo di citare qui il 'leit-motif' italico de "il turismo è il petrolio dell'Italia", e sempre per lamentarne le implicazioni negative. Visto che ora sembra che alfine vi si stia mettendo mano, è arrivato il momento di ragionarci su un po' più approfonditamente.
Fondamentalmente, le ragioni per cui ho sempre avversato questo tipo di approccio, sono due: il petrolio è altamente inquinante, ed è una risorsa fossile destinata ad esaurirsi, e quindi la metafora appare culturalmente vecchia, stantia, legata a un'idea di progresso industriale che risale ai primi del Novecento; e poi soprattutto perché spesso questa metafora veniva utilizzata avendo in mente i nostri beni culturali, considerati il principale attrattore turistico, e quindi valutati alla stregua di idrocarburi.
Ma quel che sta avvenendo nel nostro paese (e non solo), rende la metafora ancor più tragicamente attuale. Stiamo infatti entrando a pieno regime in quella che potremmo definire l’era del turismo di massa. La cui caratteristica principale è quella di essere - esattamente per le dimensioni di scala raggiunte - un fenomeno industriale; ma l'industria del turismo è tale non solo perché agisce su scala globale, ma anche perché si presenta come una articolata 'filiera produttiva', sempre più pervasiva e perciò sempre più 'sovranazionale'.
C'è inoltre un'ulteriore ragione per cui la metafora del petrolio risulta calzante: l'industria turistica è un'industria estrattiva, esattamente come quella petrolifera. Non produce beni, ma estrae valore da 'giacimenti' ricchi di valore aggiunto, e lo fa spremendoli come un limone, sino a privarli di qualsiasi vita reale.
In modo ovviamente asimmetrico, l'industria turistica globale investe oggi praticamente l'intero pianeta, a volte come meta turistica, a volte come 'bacino di utenza', a volte per entrambe. In questo contesto, stiamo anche assistendo a una sorta di 'divisione del lavoro', con alcune zone prescelte come destinazioni privilegiate, in cui la 'specializzazione' ricettiva diviene sempre più significativa, sia sotto il profilo economico che quello sociale.
Tra quelle oggi a più alta 'vocazione' turistica (oggi si dice così, quasi si tratti di una 'chiamata' divina, che rivela ciò che in fondo è sempre stato...) c'è sicuramente l'Europa del sud, la fascia mediterranea del vecchio continente. A determinare questo fenomeno concorrono numerosi fattori, alcuni storici, altri di più recente affermazione. Tra i primi, sicuramente i fattori climatici, e una densità di beni culturali e paesaggistici superiori alla media, che a loro volta hanno fatto sì che questi paesi avessero comunque, e da tempo, una significativa attività ricettiva. Tra i secondi, la forte instabilità e insicurezza dei paesi mediterranei del nord Africa, e la crisi dell'industria manifatturiera.
Capostitpite della riconversione turistica, a seguito della deindustrializzazione, è probabilmente la città basca di Bilbao, nel nord della Spagna. Città a forte presenza operaia, entrata in crisi già negli anni '80 del secolo scorso, individua la chiave di un possibile rilancio proprio nel turismo; e poiché non dispone né di particolari beni culturali, né di una collocazione geografica significativamente attrattiva (e quindi essendo del tutto priva di quella 'vocazione'), decide di 'inventarsi' di sana pianta, chiamando un archistar a costruire un avveniristico museo d'arte contemporanea - il Guggenheim di Frank O. Gehry, appunto. L'operazione riuscì talmente bene che Bilbao è divenuta un 'caso' di scuola, un esempio virtuoso. E certamente, ad esempio, la città basca doveva essere chiara in mente quando, qualche anno dopo, Antonio Bassolino lancia un 'rinascimento' napoletano fondandolo proprio sull'arte contemporanea (la 'metropolitana dell'arte', il museo MadRe, il Palazzo delle Arti Napoli...).
Il saldarsi di una serie di elementi (oltre quelli su accennati, l'esplosione dei voli low-cost, l'avvento dei social network, ecc.) ha prodotto nell'ultimo decennio, e in modo significativo nell'ultimo quinquennio, una accelerazione del processo di turistificazione, che ha investito via via numerose città del sud Europa, da Barcellona a Firenze, da Napoli a Lisbona, spesso con una velocità (e una 'violenza') tale da provocare quasi un effetto shock sugli abitanti.
La crescente turistificazione dei paesi dell'Europa mediterranea incontra anche il favore (quasi) generalizzato delle classi dirigenti, sia locali che europee, che vi intravedono una via d'uscita dalla crisi del modello industriale manifatturiero, una risposta alla crescita vertiginosa della disoccupazione, e al tempo stesso uno strumento di precarizzazione del lavoro, funzionale a una più rapida e concentrata 'estrazione di plus valore'. L'industria turistica, infatti, diversamente da quelle manifatturiera del secolo scorso, passa a grandissima velocità da una fase basata sullo sviluppo locale, sulla piccola e media imprenditorialità, a una di finanziarizzazione e globalizzazione dei processi. Anche grazie all'affermarsi di strumenti di sharing, come Airbnb, che inaugurano la stagione del cosiddetto 'capitalismo di piattaforma'.
Ecco che, quindi, sul 'petrolio' italico si sta concentrando un 'modello di sviluppo' urbano-centrico, ad alta concentrazione e intensità, e che sta producendo una crescente 'brandizzazione' di alcune città. A parte il caso limite di Venezia, in cui il processo è iniziato ormai da decenni, e che ha raggiunto livelli quasi irreversibili, città come Roma, Milano, Firenze e Napoli hanno imboccato la via di una turbo-turistificazione, che - sia pure con modalità, velocità e impatto diverso - stanno incidendo profondamente sulle rispettive realtà sociali, economiche e culturali.
Sotto questo profilo, Venezia - sia pure nella sua assoluta unicità - rappresenta appunto il grado estremo di questo genere di processo, che la rende ormai quasi una scenografia più che una città vera, una disneyland per un 'consumo' selvaggio e veloce. La città lagunare conta oggi circa 60.000 abitanti, e registra la presenza turistica annua di 30.000.000 di visitatori! La città ormai 'vive' praticamente solo di questo, con gran parte della mano d'opera del settore costituita da immigrati che vivono sulla terraferma, a Mestre e Marghera, e che fanno pendolarismo quotidiano, mentre tutte le funzioni pubbliche vengono via via a loro volta spostate sulla terraferma, contribuendo a svuotare la città di tutto ciò che la rende tale - e non semplicemente una 'rappresentazione scenografica'.
La 'monocoltura' economica, e lo svuotamento della città di tutto ciò che non è direttamente funzionale al turismo, rappresentano la concretizzazione plastica di ciò che afferma Tomaso Montanari, quando dice che la turistificazione pone un problema di democrazia, e non semplicemente di sviluppo economico. Ovviamente, specie quando - come nel caso di Napoli - il processo si presenta non come sostitutivo di un'altra economia, ma come alternativo al sottosviluppo, la questione non può essere affrontata in termini di "turismo si / turismo no", quanto piuttosto di "turismo così / turismo altrimenti".
Non si tratta, insomma, di esercitare una qualche forma di resistenza luddista nei confronti del fenomeno, ma di comprenderne la natura estrattiva, 'selvaggia', per poter giungere a governarlo. Sul breve periodo, infatti, la turistificazione produce reddito sul territorio, immette in circolo risorse, e questo ne produce una percezione prevalentemente positiva. Ma già sul medio periodo, bastano pochi anni, si manifestano tutte le problematiche 'materiali', reali, che fanno da contrappunto al fenomeno. Il primo, ovvio impatto, è sull'abitare. I centri storici sono presi d'assalto, gli appartamenti vengono sempre più massicciamente trasformati in b&b, e questo produce da un lato l'espulsione degli abitanti, dall'altro l'aumento della domanda di case a uso residenziale e quindi l'aumento dei canoni d'affitto. Solo nel giro di pochi anni, ad esempio, circa 8000 appartamenti sono stati sottratti all'uso abitativo nel centro storico di Napoli, per essere riconvertiti a uso ricettivo. E sempre più si manifestano casi di interi palazzi sgomberati in poco tempo degli abitanti, per trasformarli in alberghi o case vacanze.
In un paese in cui l'edilizia popolare è ferma da decenni, e in cui comunque esiste un problema reale di consumo di suolo, la turistificazione si manifesta come uno dei fattori di accelerazione dell'emergenza abitativa. Ma ovviamente non è il solo aspetto negativo. La conversione turistica degli esercizi commerciali nei centri storici concorre a sua volta a determinare, da un lato l'aumento del costo della vita, e dall'altro a rendere più complicata la vita degli abitanti, che non trovano più determinate tipologie di vendita al dettaglio, sostituite da esercizi di ristorazione o di finto artigianato 'tipico'. La massiccia presenza turistica, che di fatto equivale a un incremento della popolazione senza però tutti gli 'oneri' della cittadinanza, impatta inoltre anche sui servizi urbani, generalmente concepiti 'a misura' della popolazione residente. Dai trasporti ai rifiuti, la presenza annua di turisti, che a volte raggiunge anche due/tre volte il totale dei residenti, impatta pesantemente sulle condizioni di vita degli abitanti.
Più in generale, la turistificazione produce una riconversione dello spazio urbano, non più in funzione della vita quotidiana dei suoi abitanti, ma del transito 'occasionale' dei turisti. Il modo in cui spesso le amministrazioni locali, che pure sostengono i processi di turistificazione, ne affrontano taluni aspetti, si riflette negativamente anche sulla cittadinanza. Quando ad esempio vengono emesse ordinanze sul cosiddetto 'decoro urbano', che prevedono multe anche salate - ad esempio - per chi mangia un panino seduto sui gradini di una chiesa, si imbocca una strada che porta inevitabilmente a modificare anche le abitudini di vita dei residenti. Insomma, il turismo come industria estrattiva del terzo millennio, non è propriamente rose e fiori.
E, un po' com'è stato per il petrolio, il cosiddetto 'oro nero', ai territori rimane il 'nero', mentre l'oro arricchisce le 'sette sorelle'. Il fattore velocità è cruciale, perché quanto più è rapida la trasformazione, tanto più è traumatica per la città e i suoi abitanti. Se per Venezia è troppo tardi, per città come Firenze e Napoli siamo ancora in tempo a rallentare. Occorre pensare un modello di apertura al turismo diverso, non 'estrattivo'. Che lasci ai territori su cui insiste la maggior parte del reddito prodotto - senza esportarlo nei paradisi fiscali dove hanno sede i grandi fondi immobiliari internazionali e le piattaforme digitali - e che soprattutto lasci agli abitanti la possibilità di continuare a sentirsi a casa propria. Perché vogliamo che il turista sia percepito come un ospite, non come un barbaro invasore.