La genesi e la storia di nomi e cognomi ci dà lo spaccato dell’evolversi antropologico e culturale di una società, di una nazione, di una regione, di una comunità. Rosita Copioli, nella sua recensione, apparsa recentemente su un quotidiano nazionale, di Nomen. Il nome proprio nella cultura romana di Mario Lentano, ci offre una panoramica vastissima dei mutamenti onomastici in Italia, dalla tradizione romana, al Medioevo, all’Ottocento, dove il successo dell’opera lirica fece proliferare i vari Radames e Amneris, fino alla provocazioni politiche di chi chiamava le figlie “Anticlera” o “Dinamitarda” o i figli “Littorio” o “Benito”, per arrivare nell’era televisiva e delle soap opera al proliferare delle “Sue Ellen”, concludendo che: “Se l’Italia ha il maggior numero di nomi di qualsiasi altro paese d’Europa … il primato dell’assurdo per quantità e bizzarria lo possiede la Romagna, dove i nomi potevano essere perfino punitivi…”.
Oggi, dalle anagrafi romagnole vengono “rassicuranti” dati sui nomi di battesimo più in auge; negli ultimi anni, infatti, le bambine sono state chiamate prevalentemente Giulia, Sofia, Sara, Martina, Viola, mentre tra i maschietti hanno primeggiato Lorenzo, Matteo, Mattia, Francesco e Alessandro. Un ritorno al classico, dunque, una sorta di normalizzazione onomastica, dopo decenni, per non dire secoli, quando la fede politica, il culto dell’opera lirica o il semplice gusto di andare controcorrente avevano scatenato la fantasia dei romagnoli in un caleidoscopio di nomi esplosivi come dinamite o melodiosi come una romanza verdiana. Il “long seller” di Tino Dalla Valle La Romagna dei nomi, partendo da un campionario di oltre 4000 nomi di battesimo, riesce a darci un documentatissimo e vivace spaccato della storia e degli umori della Romagna e dei romagnoli di ieri e di oggi.
Antesignano della fantasia onomastica della regione è il sarsinate Plauto, che impose ai personaggi delle sue commedie nomi che divennero simboli di caratteri e personaggi, scorrendo i secoli, in una pergamena ravennate del dodicesimo secolo troviamo un “Ravenno”, un “Dato” una “Primavera”, una “Dolcecara”, una “Bonissima” e nel ‘500 Sabba Castiglione scriveva che “In Romagna regnano alcune corruttele e alcuni abusi; e tra gli altri c’è questo che ogni contadino e ogni povero artefice pone alli suoi figliuoli e figliuole gli antichi nomi degli uomini grandi, illustri, e famosi Greci e Latini e Cartaginesi, come Alessandro, Cesare, Annibale, Pentesilea, e altri simili”. Quindi, esisteva, anche nei ceti popolari, una tradizione di creatività nominativa, legata forse a un bisogno di promozione sociale o di ribellismo “ante litteram”, che vedeva nell’imposizione dei nomi quasi una sfida al potere costituito.
È comunque nell ’800, dopo le grandi ventate rivoluzionarie e le grandi utopie sociali, che i romagnoli si scatenarono in nomi che sono tutto un programma. La dottrina e la prassi mazziniana, col suo laicismo e repubblicanesimo e il parallelo culto di Garibaldi, ebbero larga presa e questa fede è attestata dai vari Edera/o Anita, Mazzino/a, Garibaldo, Nizzardo, ma anche dai più astratti Idea/o, Diritto, Pensiero, Azione. Venendo in tempi più recenti, quando il partito repubblicano, negli anni Cinquanta si divise tra Ugo La Malfa e Randolfo Pacciardi, molti pacciardiani non esitarono a chiamare i figli col nome di battesimo del loro esponente. Uno stesso nome, però, poteva dare adito a due interpretazioni politiche diverse: è il caso di Nullo, che per i repubblicani era il garibaldino Francesco Nullo, mentre per i socialisti non poteva che essere Nullo Baldini, il fondatore del movimento cooperativo.
Dopo il verbo mazziniano, il radicalizzarsi dello scontro sociale favorì il diffondersi dell’anarchismo che diede la stura a nomi letteralmente esplosivi come Ordigno, Scintilla, o crudelmente anticlericali: Ateo/a, Antidio, Negadio, Satana, Diavolinda, anche se, a volte, il conflitto “edipico” portava i figli a ribellarsi, come nel caso di un “Ateo” di S.Pietro in Campiano che si fece prete e cambiò il nome in Aristide. Socialisti e comunisti, eredi dello spirito rivoluzionario anarchico, non furono da meno “battezzando” la prole con Marxino, Lenino/a, Uliano/a, Vladimiro, Pravda, Palmiro/a e Stalino. Anche durante il fascismo ci fu chi, con coraggio, volle attestare la sua fedeltà agli ideali socialisti chiamando i figli Memore, Fedele, Fedelina, Custode o Solidea, nome da stabilimento balneare, ma che qui voleva significare l’attaccamento alla idea politica originaria. Il diffondersi della cultura positivista lasciò traccia in nomi paradossali come i fratelli Acetilene e Carburo, i matematici Algebra e Quadrato, gli scontati Elettra/o, ma come si sarà trovata quella povera bambina chiamata Formaldeide?
A proposito, i genitori erano sempre della stessa fede? Pare proprio di no, e allora si arrivava al compromesso del doppio nome come Ribelle-Silvia, Maria-Edera, o il caso estremo dei due fratelli faentini chiamati Ateo e Cristiano.
Ma lasciamo la politica e approdiamo ai più sereni lidi della musica, anche se qui lo spirito partigiano dei romagnoli si manifesta nella dura lotta tra verdiani e wagneriani: i primi attaccarono a suon di Aida, Violetta, Desdemona, Otello, o addirittura con Verdiano/a, Verdana, i secondi risposero con Sigfrido, Lohengin, Tannhauser e gli immancabili Tristano e Isotta. I rossiniani si accontentarono di qualche Guglielmo, Ottone e Torvaldo e i pucciniani di sparute Tosca, Liù e Manon. A criteri più pratici, o propiziatori o autocommiserativi si riferiscono i vari Primo, Secondo, ecc. fino a Ventino; un’ultimogenita fu chiamata Fine perché era già l’ottava della sei, ma nacque un maschio che fu ironicamente chiamato Daccapo. Fin qui la bizzaria auto canzonatoria, ma come si sarà sentita quella figlia nata nella campagna santalbertese chiamata Antavléva (Non ti volevo)?
Negli ultimi decenni si è notata “la progressiva scomparsa dei nomi tipici di certe zone, la quasi totale eliminazione dei nomi di carattere politico e il prorompente affermarsi – sul piano nazionale - di quelli che potremmo chiamare i nomi di moda. Così c’è stata l’epoca dei Daniele e Daniela, Luca e Andrea, Monica e Barbara, Serena e Davide, Patrizia e Sabina, ai quali si sono aggiunti in forte proporzione i nomi di origine straniera per l’influsso del cinema e soprattutto della televisione”. E il Dalla Valle riporta come esperienza diretta che, mentre stava ultimando gli appunti per la pubblicazione del suo testo sotto un ombrellone di Marina di Ravenna, sentì la voce stentorea di una madre che richiamava figlie e amichette perché era ora di rincasare: “Deborah, Vanessa, Jessica, Milkana, venite!” Si afferma, dunque, anche una sorta di omaggio-identificazione con i prodotti dell’immaginario pubblicitario. Allora, ecco saltar fuori un bambino di nome Heineken e una bambina chiamata Kaori, che era una giapponesina che reclamizzava un formaggio, ma, in fondo, si tratta pur sempre di oggetti, “usa e getta”.
Forse più invasivi sono i personaggi televisivi o cinematografici in cui l’identificazione diventa più intima e persuasiva: e via con Brenda, Derrick, Kimberly e poi con Sharon, Zeuda, Kevin, Scarlett, Naomi, che fanno un po’ rimpiangere le Greta e Rossella del secolo passato. E chi avrebbe mai detto che le Anita ed Elena risorte ultimamente non sono le eroine della mitologia garibaldina o classica, ma semplicemente due protagoniste di una soap-opera italiana? A conferma, poi, di come il tubo catodico difficilmente porti cultura, tanto meno linguistica, ecco una patetica serie di strafalcioni onomastici: Endriu, Silly, Ales, Tammy, Jonny, Saimone, ecc.
“Questa è, ormai, l’unità d’Italia realizzata praticamente solo attraverso l’influenza antropologico-culturale della televisione, cui si aggiunge il fascino della componente esotica dovuto ai nomi di origine straniera” commenta Il Dalla Valle, a conclusione di una questa straordinaria galleria onomastica.