Metà degli anni Cinquanta. Italia meridionale. L’incontenibile irrequietezza e la vivacità di noi bambini non erano frenate dalla tristezza del nero che allora opprimeva la scuola elementare. Neri erano i grembiulini nei quali, bambini e bambine, erano ingabbiati, stretti alla gola da colletti inamidati. L’unica nota di colore era concessa dai fiocchi che indicavano la classe di appartenenza, alla gola per i bambini e in testa per le bambine.
Nera la odiatissima e gigantesca lavagna che non serviva solo per le spiegazioni e le temutissime interrogazioni. La sua immagine, nei nostri ricordi, è legata alla figura del capoclasse, secchione e spione, messo davanti a questo schermo scuro, tagliato a metà da un segno di gesso, a creare due settori contrassegnati rispettivamente da una “B” e una “C”, per annotare i buoni e i cattivi. Guai a finire nell’elenco del settore C; bisognava aspettarsi la punizione dalla più dolorosa, inferta dalla temuta bacchetta, al più mortificante: stare in piedi accanto alla cattedra esposto agli sberleffi dei buoni che se la godevano a vederti in castigo.
Neri e grigi erano gli scomodissimi banchi di legno nei quali eravamo intrappolati; nero il melmoso inchiostro del calamaio infilato nel banco nel quale eravamo obbligati a intingere un ispido pennino che grattava sulla carta; nere le copertine dei quaderni, col taglio delle pagine rosso; nere le severe suore nelle quali incappavano alcuni di noi; grigie le pareti, chiaro in alto e scuro in basso, delle nostre aule.
Ogni tanto qualche frequentatore di facebook avanti nell’età ha il coraggio di pubblicare vecchie fotografie delle elementari di quegli anni nelle quali non si vede uno scolaro che sorrida davanti all’obiettivo: tutti in pedi con le braccia dietro la schiena, immobilizzati dal terrore di una disciplina ferrea che ci voleva sempre fermi e zitti.
Indimenticabile il primo giorno di scuola, 1 ottobre ’55. In quaranta eravamo stipati in una stanza, incastrati in quei banchi scomodi e massicci. E resta indimenticabile la prima tortura: riempire l’intera pagina di un quaderno a quadretti con un incredibile numero di aste, che avrebbero dovuto essere tutte uguali, dritte come soldatini schierati sull’attenti, con il pennino intinto nel maledetto calamaio. Non che me ne venisse una dritta e pulita: una storta, una un po’ obliqua, una devastata da una macchia perché quel traditore del pennino s’era improvvisamente allargato facendomi perdere il controllo del flusso dell’inchiostro. Al povero compagno mancino fu immobilizzata la sinistra, legandogliela al collo come se fosse ferita, per costringerlo all’immane e innaturale fatica di scrivere con la destra.
E alla fine della fatica il controllo della maestra, un donnone dai capelli rossi tinti, al limite della pensione. Disprezzò ad alta voce, perché tutti potessero sentire, le mie lineette tutte storte e poi mi mostrò il quaderno di Antonio, compagno di giochi nel cortile condominiale, lodando la correttezza del suo lavoro.
Odiammo subito, con implacabile intensità, quella maledetta asticciola col pennino; aveva l’unico pregio di poter essere usate come freccetta che su quei banchi di legno stagionato e morbido per la loro vetustà si appizzava che era un piacere; piacere pari al dolore della punizione corporale, uno scapaccione o una bacchettata, quando si veniva scoperti in quell’uso improprio. Perché mai non potessimo usare quella a sfera è sempre stato un mistero. Nei giorni successivi di un triste e interminabile ottobre subentrò l’alfabeto. Sulle pareti erano squadernate le pagine di un sillabario: la maestra con la stessa bacchetta con la quale all’occorrenza ci colpiva, puntava l’una dopo l’altra le pagine. E noi in coro: a, come ape; bi, come banana; ci, come casa… fino a zeta come zebra.
Nel corso dell’interrogazione per verificare la nostra scioltezza nella lettura la perfida maestra metteva con la penna rossa il voto direttamente sulla pagina del libro, lasciando un indelebile segno che a casa i genitori potevano vedere per aggiungere, se il voto era basso, il loro personale rimprovero; perché a quei tempi il giudizio dell’insegnante era indiscutibile, come un dogma. Improvvisa poteva scattare l’ispezione nelle tasche del grembiule o nella cartella per verificare la presenza di oggetti impropri, come una fionda o un bombolone di zucchero, che venivano immediatamente sequestrati per essere destinati, a sentire lei, a improbabili bambini poveri.
Così ci educavano, punendoci continuamente, mortificandoci pubblicamente, mettendoci perfino in ginocchio davanti all’intera classe, contrapponendo e mettendo in competizione i più bravini con quelli più lenti, e soprattutto, opprimendoci con colore nero che ci circondava. Insomma la scuola elementare di quegli anni ce la metteva tutta per crearci complessi, per inibire la nostra fantasia, per colpevolizzare la nostra vivacità, per farci sentire sempre alle soglie del peccato. Meglio di come è venuta su la generazione di quegli anni, con la scuola elementare che ha subito, non poteva davvero.
Per parafrasare il titolo di un libro di successo e del film che ne è scaturito, dedicati a bambini del nostro problematico mezzogiorno con scarsissima familiarità con la lettura, la scrittura e la lingua italiana, possiamo dire che nonostante tutto, alla fine ce la siamo cavata!