La fotografia, come forma d’arte, è forse quella che più d’ogni altra sa evitare la menzogna. Ed è quella che più d’ogni altra può documentare il reale, farsi testimone della vita. Questa, però, deve essere una scelta. Perché, come per ogni forma d’arte, anche la fotografia può fare affidamento su una serie interminabile di artefici.
Non è il caso della fotografia prodotta da Nan Goldin, per la quale fotografare è esperienza concreta, totale immersione nel presente. In un presente intimo, quotidiano, anonimo, vissuto in prima persona. Un presente senza bellezza, a volte. Crudo, marginale, ma che diventa il soggetto principale di tutta la sua ricerca. Neutralizzando i confini tra arte e vita, Nan Goldin fa della realtà – quella vera, quella dura – il solo, ineguagliabile, soggetto della sua ricerca.
Nata a Washington nel 1953, la Goldin iniziò a fotografare all’età di 15 anni. Allora frequentava un istituto chiamato Setya, da lei stessa definito “libero e hippy”, in Massachusetts, e a quanto pare una sua compagna le diede in mano una Polaroid. Da quel momento s’improvvisò fotografa della scuola e la macchina fotografica le divenne indispensabile. Ma prima di impugnare quella Polaroid un evento traumatico segnò la sua vita e la sua crescita: la morte di sua sorella Barbara, che si suicidò quando Nan aveva solo 11 anni. Forse è da quell’evento tanto doloroso che scaturisce il suo innato interesse per la dimensione intima e privata della solitudine, del disagio interiore, di una sofferenza che si consuma nell’anonimato. A soli 18 anni iniziò una relazione con un uomo di 30. Andò a vivere con lui a Boston, città nella quale frequentò la School of the Museum of Fine Arts e dove iniziò ad avvicinarsi al notturno e fascinoso mondo delle Drag Queen, che divenne uno dei temi ricorrenti del suo lavoro.
Alla Goldin la tecnologia interessava poco. Era un’autodidatta e non si curò molto degli strumenti e dei materiali coi quali lavorava. Non si preoccupava di sviluppare una conoscenza approfondita dello strumento e non si è mai sforzata di avere uno stile particolare o di studiare un “set”. Il suo set fotografico era la vita reale, improvvisa e autentica. Lei stessa racconta spesso di aver utilizzato, durante i primi tempi, qualunque macchina fotografica le passasse sotto mano e pare che i negativi delle sue prime fotografie in bianco e nero siano oggi seriamente compromessi.
La serie sulle Drag Queen proseguì a New York, città dove si trasferì 1978 e dove riuscì ad affermarsi come artista, benché i sui lavori facessero storcere il naso a molti. L’esplicitazione della diversità, l’abuso di droghe, la solitudine decantata, il sesso senza veli, le vita privata che diventa di dominio pubblico, la messa a fuoco costante di ciò che è relegato ai margini, lo strazio dell’AIDS, la crudezza narrativa, l’assenza di censure o abbellimenti. Il lavoro di Nan Goldin è sempre stato caratterizzato da un verismo aspro e romantico, sebbene inizialmente la sua ambizione fosse quella di lavorare per Vogue!
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta la sua ossessione per le drag queen la portò ad andare a vivere per un certo periodo con loro e di quella fase della sua vita esistono scatti memorabili, veri e propri ritratti di un momento storico e di uno stile di vita estremo e inconfondibile. La sua indole istintiva l’ha sempre portata a fotografare con una certa urgenza e allo scopo di fermare la realtà nella quale era immersa in prima persona. Il suo obiettivo era quello di scovare, catturare ed eternare l’attimo presente, raccontando la condizione degli essere umani, la loro capacità di sopravvivere, e la difficoltà di farlo. Ha sempre scattato spontaneamente e lo ha fatto con una immediatezza che è di fatto diventata la sua cifra stilistica.
La straordinarietà dei suoi scatti, che di fatto sono il ritratto di una generazione e di un’epoca, sta proprio nel loro apparire talvolta casuali, amatoriali, niente affatto studiati. Sono scatti che della vita vogliono afferrare l’inafferrabile. Cogliere istanti apparentemente insignificanti, attimi di semplice condivisione o malinconica solitudine. La New York degli anni Ottanta viene raccontata in tutte le sue sfaccettature. Nan Goldin ha di fatto reso immortale il mondo in cui ha vissuto e lo ha fatto mentre lo viveva. I soggetti da lei immortalati sono le persone che ha frequentato e che ha amato. I suoi amici, i suoi amanti, una sorta di grande famiglia con la quale condivideva tutto: la vita notturna, le droghe, il sesso, la desolazione, la malattia. Tutto. E quel tutto è registrato in un archivio più che copioso, un infinito ventaglio di scene. I soggetti che ballano o bevono sono stati catturati mentre lei stessa, insieme a loro, beveva o ballava. I suoi amici ritratti mentre facevano sesso non posavano per il suo obiettivo, ma era realmente presi alla sprovvista, e continuavano a fare ciò che stavano facendo incuranti della sua presenza.
“Non c'era separazione tra me e ciò che stavo fotografando”, questa sua frase chiarisce meglio di ogni altra definizione il suo modo di lavorare.
In quegli anni Nan viveva una vita all’insegna dello sballo: lavorava solo sotto effetto di alcol o droghe, si era convinta di non poter lavorare da sobria, come se nello stordimento e nell’euforia vi fosse la radice vera della sua creatività. La droga ampliava la sua visione delle cose. Ha vissuto così una vita ai margini, in una New York psichedelica, la New York delle diversità. Il 1989 fu l’anno del ricovero per disintossicazione, a seguito del quale, nel 1990 acquistò la sua prima Leica.
Fotografare per rendere eterna la vicinanza con chi faceva parte del suo mondo non bastò ad evitare l’inevitabile. Diversi suoi amici e conoscenti morirono per droga o AIDS, e anche quegli attimi estremi furono fermati dal suo obiettivo. Le lacrime, l’impotenza, l’incredulità. E, a un certo punto, anche l’abitudine a tutto quello strazio e la consapevolezza che nessuna fotografia avrebbe mai potuto eternare la presenza di qualcuno; nessuna fotografia avrebbe mai potuto sostituire nessuno. Vi è una grande accettazione in tutto questo. Un’accettazione che rende ancor più profondo il senso della sua ricerca, già carica di umanità.
Quando si pensa a Nan Goldin non si può semplicemente pensare a una fotografa che impugna il suo strumento, quanto piuttosto una donna amalgamata alla realtà stessa che va a ritrarre. In diversi dei suoi lavori è presente lei stessa e non sono pochi neppure gli autoritratti. Celebre e iconico è divenuto quello del 1984 in cui il suo viso si presenta segnato da lividi e percosse. Il titolo è esplicito: Nan One Month after Being Battered / Un mese dopo essere stata picchiata. In questo caso la fotografia sbatte in faccia al mondo la verità. L’artista era stata realmente aggredita e il valore documentativo di quest’opera, allora, resta quello di dar voce a tutte quelle donne che non dicono, non denunciano, non affrontano il loro aguzzino e per questo restano vittime di chi le ha ferite e della società.
Tra le serie più note ricordiamo quella sul suo partner “Gotscho”, artista parigino morto di AIDS, del quale racconterà gli ultimi mesi di vita attraverso immagini strazianti, quella dedicata alla sua amica Cookie, attrice, poetessa e attivista culturale, titolato The Cookie Portfolio ritratta in diversi momenti della sua vita tra cui quello del suo matrimonio con l’artista italiano Vittorio Scarpati, quello del funerale dello stesso per AIDS e quello che la ritraeva negli ultimi mesi di vita, ormai completamente consumata dalla malattia.
Non poco scalpore fece, inoltre, la serie dedicata a Greer che documentava il suo cambiamento di sesso, da uomo a donna. Ma tra i lavori più avvincenti non si può non citare The Ballad of Sexual Dependency, una lunga serie di diapositive a colori, realizzate in periodi differenti e organizzate in uno slide show della durata di 50 minuti.
La mostra che invece la rese nota al grande pubblico arrivò solo nel 1996, presso il Whitney Museum di New York. Si intitolava I’ll be Your Mirror. Da quel momento la Goldin espose in tutto il mondo: da New York a Rio de Janeiro, da Vienna a Milano, da Roma a Tokyo. Oggi Nan Godin vive e lavora tra Berlino, Parigi e New York.