Ho scoperto che le competenze necessarie per dirigere un’azienda fondata sui principi dell’innovazione aperta sono del tutto diverse da quelle necessarie per dirigere un’azienda fondata sulla struttura gerarchica di un’organizzazione convenzionale. Modificare il proprio stile di direzione potrebbe essere doloroso ma indispensabile per tutti i leader del ventunesimo secolo.
(Jim Whitehurst)
Negli ultimi venti anni “leading uncertainty” è stato uno degli incipit più rilevanti per il management delle organizzazioni sociali, soprattutto per quelle for profit. La complessità che caratterizza la volatilità delle dinamiche economiche, sociali e politiche trae origine dal crescente intreccio relazionale tra le persone, tra i mercati, tra le leggi, tra le reti, tra gli eventi: in tempo reale e in un’unica trama. Interconnessione e interdipendenza delle persone, dei loro comportamenti e degli effetti delle loro azioni nel tempo e nello spazio, rappresentano i principali temi di analisi degli attuali studi manageriali e organizzativi.
La disponibilità di miliardi e miliardi di dati che l’uomo cerca di imbrigliare, connettere, interpretare e sfruttare a proprio vantaggio mediante forme tecnologiche e algoritmiche sempre più sofisticate non riesce, però, ad avere la meglio sull’incertezza che regna nel mondo delle decisioni e delle strategie umane. L’incertezza tende poi ad essere percepita come una variabile esponenziale se si pensa al processo ormai irreversibile di delega all’intelligenza artificiale e alle sue infinite applicazioni per la sostituzione di una quantità sempre maggiore di lavori fino a pochissimi anni or sono esclusivamente riservati all’attività umana. Di più: la diffusione della robotica di ultima generazione sta riducendo di molto le categorie dei tradizionali ruoli di lavoro dipendente produttivi di reddito nelle famiglie del ceto medio.
La crescente difficoltà delle persone e delle organizzazioni sociali nell’orientarsi con fiducia in questo inizio di millennio ha reso palese la difficoltà dell’uomo ad accettare la sfida del suo rapporto con la tecnologia. E questo, riguardo al modo in cui gli uomini hanno pensato al concetto di intelligenza negli ultimi due secoli, fa sorgere immediatamente due domande: questo disorientamento non potrebbe dipendere proprio dal modo in cui siamo stati abituati a pensare all’intelligenza? E se aderissimo a un concetto di intelligenza diverso da quello che abbiamo avuto fino ad oggi? Un esempio per tutti: in un report Accenture del 2015 dal titolo IQ plus EQ: how technology will unlock the emotional intelligence of the workforce of the future a cura di B. Payne, C. Sloman e H. Tambe si rileva la possibilità di sfruttare le potenzialità dei nuovi wearable device per raccogliere ed elaborare dati utili a comprendere come migliorare il modo in cui i manager e i collaboratori interagiscono tra di loro. Riconoscere schemi emotivi, descrivere con precisione i modelli di comunicazione e individuare le più diffuse ricorrenze nei circuiti di feedback, potrebbe consentire una conoscenza in tempo reale di quali siano i comportamenti più efficaci da assumere per migliorare le relazioni organizzative, umane e operative. Le “macchine” dovrebbero suggerire le attività con le loro interdipendenze e le persone dovrebbero decidere se metterle in pratica o meno evitando così che la tecnologia possa assumere la veste di un intruso che desideri eliminare il libero arbitrio dell’uomo.
Dunque, forse è proprio nel processo di evoluzione della relazione tra le persone e tra l’uomo e la tecnologia che si annidano le migliori e più grandi possibilità per migliorare le condizioni di benessere per le organizzazioni economiche e sociali. L’adozione di un approccio relazionale può consentire di comprendere il “perché” poi accadano certe cose e come sia possibile “farle accadere”! Prendiamo, ad esempio, questa breve narrazione di Keith Sawyer, uno dei più importanti guru mondiali della creatività, nel suo Group Genius. The creative power of collaboration del 2007.
Si tratta della storia incrociata e generativa di due dei più importanti componenti del famoso gruppo degli Inklings, nato alla fine degli anni ’30 a Oxford. Un circolo di discussione letteraria, i cui membri si incontravano ogni martedì alla fine della giornata in un pub di Oxford per fare letture e dialogare di poemi, miti e altro ancora. Si tratta di Clive Staples Lewis e di John Ronald Reuel Tolkien, entrambi molto noti al grande pubblico: il primo per essere l’autore delle Cronache di Narnia e il secondo per essere l’autore del Signore degli anelli. Sawyer racconta di queste riunioni: “quando nella discussione emergeva un’idea nuova, tornati a casa, tutti la sviluppavano in un abbozzo di capitolo, che poi leggevano a turno nell’incontro successivo, ascoltando le osservazioni critiche degli altri (…) senza quella cerchia creativa forse le grandi opere di questi autori oggi non esisterebbero”. E si chiede: “Come hanno potuto gli Inklings trasformare C.S. Lewis da mediocre poeta a tempo perso in romanziere famoso, e incanalare le fantasie mitologiche di Tolkien in una narrazione coerente?”.
Se ci dovessimo limitare a una valutazione individuale e assoluta dell’intelligenza, sia essa misurata attraverso il QI od il QE o anche attraverso entrambi questi indicatori, potremmo comprendere il fenomeno generativo appena descritto? In altri termini, ci possiamo porre una domanda di questo tipo: quale è stato il segreto di questo successo visto che né Lewis né Tolkien facendo ricorso alla loro sola intelligenza personale, di sicuro molto elevata, sarebbero potuti riuscire vincitori di una sfida così impegnativa come quella di scrivere dei romanzi di successo planetario? È ora di ripensare e ampliare il concetto di intelligenza.
Un approccio relazionale all’intelligenza manageriale richiede il definitivo superamento di una convinzione assai diffusa e fortemente limitante: quella che una persona sia preferibile a un’altra in relazione al suo più elevato quoziente di intelligenza logico-riflessiva e/o emotiva. Il secolo trascorso è stato dominato da un approccio psicometrico all’intelligenza che ha posto in primo piano il concetto di “meritocrazia dell’intelligenza” e ha indirizzato le proprie elaborazioni alla ricerca di un valore assoluto dell’intelligenza che consentisse di valutare le differenze tra gli individui e sulla base di questa valutazione potesse consentire la definizione oggettiva di scale sociali del potere e con esse dei domini contrapposti di privilegi e doveri.
Egualmente dicasi per la proliferazione di elaborazioni statistiche volte a verificare la correlazione tra quozienti di intelligenza personale e miglioramento delle performance aziendali. Ne sono conseguite categorizzazioni sociali e catene di comando che si sono auto-rinforzate grazie a una progressiva separazione tra due grandi poli di attrazione che hanno generato dei veri e propri silos operativi: il primo composto da coloro i quali pensano (i thinkers, quelli più intelligenti?) e il secondo formato da coloro i quali eseguono (i makers, quelli meno intelligenti?).
Lo sviluppo di forme organizzative digitali, aperte, conversazionali, strutturate in reti di team collaborativi e alla pari richiede nuovi modelli di management che pongano al centro dell’azione il circuito di relazioni tra le persone. La dinamica delle relazioni è sempre più complessa, a volte persino misteriosa o incomprensibile; contemporaneamente è sempre più forte la domanda di una democratizzazione dei processi decisionali e con essa la necessità per le organizzazioni di creare nuovi stili d’azione. Nelle attuali pratiche di management il livello delle relazioni personali e quello delle relazioni con l’ambiente sono sempre più stressati dalla necessità di affrontare con efficacia gli imprevisti e di predire il futuro nel modo più attendibile. Non solo: i processi organizzativi mutano rapidamente le proprie forme lasciando sempre più spazio a dinamiche auto-organizzative team based.
È così sempre più difficile disegnare una visione possibile verso la quale puntare le proprie azioni e il più delle volte risulta persino vano tentare di anticipare gli eventi in un tempo a noi più prossimo. In questo scenario è decisivo per il management comprendere quali sia il nuovo sistema di capacità da sviluppare per acquisire maggiore consapevolezza delle relazioni sistemiche all’interno delle quali è inserita l’organizzazione e le sue persone in modo tale da condurre con soddisfazione i propri rapporti di lavoro e anticipare al meglio gli effetti delle proprie azioni, sia nel tempo che nello spazio.
Le intelligenze relazionali non possono essere conosciute a priori; emergono di volta in volta in virtù del dispiegarsi del circuito dell’io con l’altro, dell’io con il gruppo, dell’io con il contesto. L’efficacia della loro manifestazione dipenderà dalla capacità di ognuna delle parti nel saper condurre delle azioni che soddisfino i bisogni e facilitino il perseguimento delle finalità tra loro in relazione. Se desidero sostenere e aiutare un’altra persona mi dovrò chiedere: sono in grado di vedere, ascoltare, provare e accompagnare i suoi stati d’animo e le sue necessità? E se desidero persuadere un’altra persona ad affiancarmi mi dovrò chiedere: sono in grado di manifestare il mio ruolo, di offrire credibilità e sicurezza rispetto alle sue aspettative? Oppure: in quella specifica situazione sono in grado di agire in modo coerente? Sono così attento e pronto da poter comprendere ciò che accade e come potrebbero evolvere le cose? Sono in grado di agire nel modo migliore e nel momento giusto? Ed ancora: sono in grado di valutare nel dettaglio e nel modo migliore possibile gli effetti che le mie azioni determineranno sulla situazione?
Sì! Urge ripensare al concetto di intelligenza. Qual è il suo motore primo?