Cento anni fa, il 29 dicembre del 1913, chiudeva la rivista La Voce, una delle più interessanti proposte culturali che hanno influenzato le vicende italiane per quasi tutto il '900.
Il suo fondatore e direttore era un giovane e brillante perugino, Giuseppe Prezzolini, di appena 26 anni, trasferitosi a Firenze per motivi di studio e non nuovo a iniziative editoriali. Tre anni prima, con l'amico Giovanni Papini, aveva fondato la rivista Leonardo insieme a tanti giovanissimi intellettuali assai eterogenei che, come ebbe a scrivere lo stesso Papini, convivevano uniti "più dagli odi che dai fini comuni". Gli odi erano verso il positivismo, l'erudizione, l'arte verista, il metodo storico, il materialismo, la borghesia ottusa e il collettivismo tirannico della democrazia. Insomma, ottimi bersagli per mettersi contro tutto e tutti.
Ciononostante Leonardo era ancora, per quanto interessante, un esperimento giovanile, goliardico, bisognava arrivare alla rivista La Voce, per fare della battaglia culturale il rinnovamento del Paese. La rivista uscì nelle edicole, come settimanale, il 20 dicembre del 1908, quattro giorni prima del devastante terremoto di Messina. Papini per l'occasione fece una profezia sulla nuova testata, per sdrammatizzare la tragedia che attanagliava l'Italia: "Sarebbe stata un terremoto per la cultura italiana". Mai profezia fu più veritiera! Formata da quattro pagine, che solo in caso di numeri speciali arrivavano a otto, aveva i moderni caratteri aldini, la carta color avorio, ed era impaginata su quattro colonne dal testo fittissimo per guadagnare più spazio; la carta già allora aveva costi elevati e anche per questo le illustrazioni erano pochissime. La testata volutamente semplice, senza motti o fregi tipici dell'epoca, era stata disegnata da un giovane artista e poeta, Ardengo Soffici. Una copia costava 10 centesimi, l'abbonamento annuale 5 lire, la tiratura iniziale fu di 2000 copie, per poi attestarsi stabilmente sulle 3000 con punte di 5000 copie nel 1911. Mezzi finanziari pochissimi, le vendite non coprivano neanche la metà delle spese e la cifra iniziale con la quale aveva iniziato Prezzolini di 800 lire si era ben presto esaurita. Per fortuna aveva dei collaboratori generosi, oltre che facoltosi, come il marchese Alessandro Casati che metteva spesso mano al portafoglio per venire incontro ai collaboratori, ed erano la maggioranza, in difficoltà.
A dare un po' di lustro alla rivista c'era anche qualche nome di rilievo, come Benedetto Croce, al quale Prezzolini aveva promesso l'uscita entro il 20 dicembre, mantenendo la promessa. La maggior parte dei collaboratori, comunque, erano poco più che esordienti o totalmente sconosciuti nel mondo della cultura, ma ben presto dimostrarono, come vedremo, una grande vitalità.
Il primo numero uscì con un articolo redatto da Papini che occupava tutta la pagina, intitolato "L’Italia risponde", Prezzolini, invece, si dedicò, sul secondo numero a un articolo programmatico, non privo di una certa retorica, "La nostra promessa" nel quale poneva all'attenzione dei lettori i nuovi movimenti culturali che circolavano per l'Europa, soprattutto voleva aprire all’informazione e al dibattito culturale internazionale da cui l'Italia giolittiana era esclusa. Accanto a obiettivi così complessi, Prezzolini elencò anche una serie di battaglie da affrontare, meno appariscenti, ma non meno importanti per un risorgimento culturale del Paese, come l'incentivazione delle biblioteche pubbliche con la promozione della lettura per arrivare alla riforma, purtroppo ancora attuale, della burocrazia e dell’ordinamento delle scuole e delle università. In proposito scrisse "Noi sentiamo fortemente l’eticità della vita intellettuale, e ci muove il vomito a vedere la miseria e l’angustia e il rivoltante traffico che si fa delle cose dello spirito." - e proseguiva - "Di lavorare abbiamo voglia. Già ci proponiamo di tener dietro a certi movimenti sociali che si complicano d'ideologie, come il modernismo e il sindacalismo; di informare, senza troppa smania di novità, di quel che meglio si fa all’estero; di proporre riforme e miglioramenti alle biblioteche pubbliche, di occuparci della crisi morale delle università italiane; di segnalare le opere degne di lettura e di commentare le viltà della vita contemporanea".
Certo quei ragazzi allora non avrebbero immaginato di far parte di un'avventura intellettuale che avrebbe avuto, negli anni, decine di libri, convegni, antologie come quella curate da Angelo Romanò e da Giansiro Ferrara e dallo stesso Prezzolini il quale, con il cinismo intellettuale che l'ha sempre contraddistinto, mantenne sempre per la sua creatura un certo disincanto. Nel pubblicare ricordi, documenti e articoli di quell'avventura, Prezzolini non dimenticò mai l'ideale vociano: quello di non dare troppa importanza alle cose, riducendone la sua importanza storica.
Nonostante questi "sforzi" del suo fondatore, La Voce rimane ancora oggi un laboratorio culturale senza pari. Ma chi erano questi collaboratori, giovanissimi sconosciuti? Scegliamo solo alcuni nomi come Papini, Soffici, Cecchi, Pizzetti, Sbarbaro, Saba Longhi, Salvemini, Amendola, Einaudi e Bacchelli. Ragazzi che collaborarono, nonostante il disincanto di Prezzolini, al rinnovamento della cultura italiana, nella letteratura e anche nella lingua, facendo arrivare in un'Italia assai provinciale la cultura europea nel campo delle lettere, ma anche dell'arte visiva e della musica. Scrisse Carlo Martini, studioso di questo fenomeno culturale " ...con tutte le sue irrequietezze, le sue febbri, le sue potenti ingenuità, le sue disperate passioni, le sue contraddizioni, il suo vivacissimo desiderio di verità, la rivista rimane uno dei più importanti eventi culturali del Novecento".
Ancora più definito, è il giudizio di un altro critico letterario come Eugenio Garin "Il merito principale de La Voce - scrive - non solo fu molto sensibile, a livello culturale, alle tendenze che agitavano il Paese, ma contribuì a una presa di coscienza da parte degli intellettuali italiani, né fu estranea alla formazione di taluni di essi, destinati ad operare fra le due guerre. Senza La Voce rischierebbero di diventare incomprensibili molti aspetti di Gobetti, e persino taluni spunti di Gramsci".
Ma Gobetti e Gramsci non furono i soli esponenti della politica italiana, pur di opposte tendenze, ad aver subito l'ascendente degli scritti vociani, anzi, per intellettuali come Curzio Malaparte, La Voce era stata la culla contemporaneamente sia del fascismo che dell'antifascismo. Un'esagerazione, forse, ma tra i collaboratori, anche se per un brevissimo periodo, ci fu anche uno sconosciuto socialista, maestro di scuola, con velleità giornalistiche, Benito Mussolini. In seguito, il futuro duce scrisse nel 1917 una lettera a Prezzolini con sentimenti di gratitudine: "Io mi sono un po' fatto e rifatto prima alla parola del Leonardo poi a quella della Voce, e quindi ti sono debitore di molte cose". Sul fronte opposto, un altro giovane bussava alla redazione, Ferruccio Parri che, fresco di studi, voleva partecipare alle lotte culturali del tempo dalle pagine della rivista, insieme a un altro giovane, Dino Grandi, senza dimenticare che un assiduo lettore de La Voce fu anche Palmiro Togliatti. Questi nomi, pur con le loro differenti visioni della politica, eliminano l'idea che il giornale fosse stato la base culturale del fascismo o dell'antifascismo, in realtà la creatura di Prezzolini fu un vero e proprio crogiolo d'idee, di fatti, di storie che erano vive nel Paese, ma sottotraccia, nella sonnacchiosa Italia giolittiana.
La Voce riuscì a interpretare questo malessere nel momento giusto. L'originalità dell'esperienza vociana è, curiosamente, proprio nella sua organizzazione tutt'altro che efficiente, che si autodefiniva "Un convegno di persone intelligenti e oneste, ma di idee differenti" al quale collaboravano, come abbiamo visto, artisti e filosofi, nazionalisti e socialisti, rivoluzionari e conservatori, insomma personalità addirittura incompatibili, ma era proprio quello che voleva Prezzolini che non desiderava ideologie già definite, ma una coscienza critica che potesse essere una speranza per un'Italia diversa, come la definiva Giovanni Amendola, altro assiduo collaboratore che sintetizzò in una semplice frase tutta l'idea vociana "L'Italia com'è oggi non ci piace" e Giolitti ne era il simbolo negativo, considerato, "un vero pericolo nazionale".
Sempre Amendola in poche, durissime parole descrive l'Italia del tempo, purtroppo di un'attualità sorprendente. "Un paese di bottegai, albergatori e servitori, composto per nove decimi di una buona greggia di servitori senza ideali e per un decimo di un miscuglio nauseante d'inetti, di scettici e di faccendieri, senza fede e senza coscienza". Contro l'Italia giolittiana, i vociani volevano un rinnovamento totale, prima di tutto di valori e forse l'ambizione di voler loro stessi essere un partito d'intellettuali o, almeno, poterne influenzare la classe politica. Una battaglia morale espressa soprattutto da Salvemini che collaborò alla rivista fino al 1911. Grande meridionalista, seppe individuare nell'arretratezza del nostro Meridione le cause dei mali della nazione. Denunciò la corruzione, le manipolazioni governative nella politica locale, il decentramento dei poteri fino ad arrivare al suffragio universale - a quel tempo votava appena il 10% della popolazione ed erano solo uomini - ma non solo. In un celebre articolo di denuncia "Cocò all’Università di Napoli, o la scuola della mala vita" determinò l’inizio di una lunga battaglia contro il baronato accademico, espressione coniata proprio dai vociani, e contro il grigiore dell’università italiana (Lascio al lettore considerare l'attualità della battaglia, ndr).
Per la serie "bisogna sempre avere un nemico per fare la guerra", Prezzolini non esitò ad aprire una durissima polemica sul giornalismo dell'epoca e la sua funzione non sempre limpida. Famosi furono gli scontri anche personali con un mostro sacro del giornalismo del tempo, Ugo Ojetti. Nel 1911 la rivista arrivò ad avere una tiratura inimmaginabile, ancora oggi, per un periodico culturale, 5000 copie. A rendere famosa la rivista furono anche rubriche che rimasero celebri nella storia del giornalismo come la sarcastica "Caratteri", "Delizie indigene" o "I discorsi dell’Egregio Collega", articoli che fustigavano senza pietà i costumi dell’Italia d'inizio '900. Di grande interesse fu anche la rubrica "Città e regioni", assai moderna per l'epoca, con corrispondenze dalle varie province italiane.
L'idillio di una situazione così particolare non poteva però durare a lungo. L’estrema diversità di opinioni tra i collaboratori della rivista condusse irreparabilmente a dissensi, a volte molto duri. C'era chi si augurava e incoraggiava un maggiore coinvolgimento politico, chi criticava la possibilità di divenire, prima, o poi, un organo di propaganda e chi temeva di non incidere più sulla cultura. Ricordiamo che in quegli anni furono feroci i contrasti senza esclusioni di colpi, e non mancarono aggressioni, risse e contumelie varie tra futuristi e vociani. L'occasione per la separazione arrivò con la guerra italo-turca per la conquista di un territorio sabbioso di fronte le nostre coste, chiamato in seguito Libia. Dopo una feroce campagna contro la guerra, la redazione si divise.
Per Prezzolini quando la patria era in guerra bisognava, al di là delle proprie idee, aderire allo sforzo nazionale, mentre per Salvemini era una posizione da combattere sempre. Da meridionalista, Salvemini non poteva sopportare lo sperpero di denaro di una nazione, ancora povera, per un'avventura coloniale senza alcun ritorno, mentre nel sud Italia si continuava a morire di fame e di emigrazione. Ben presto Salvemini lascerà La Voce per fondare un altro giornale, L'Unità, da non confondere con quello che dieci anni dopo fonderà Gramsci come organo del partito comunista.
Nel 1912 la lacerazione indusse Prezzolini a lasciare a Papini la direzione della rivista, il quale le diede un taglio più culturale che politico, e senza dubbio la cultura italiana ne ebbe un grande arricchimento. Solo per fare alcuni esempi, furono presentati autori come Ibsen, Mallarmé, Gide o Claudel. Nonostante i successi editoriali, verso la fine dell'anno, Prezzolini volle tornare alla direzione del giornale, ma la rottura con molti era ormai insanabile. Ben presto Papini lasciò la rivista, insieme ad Ardengo Soffici, per fondare un altra rivista culturale, Lacerba, che, come La Voce diventò un caposaldo della nostra cultura. Ormai l'avventura de La Voce aveva fatto il suo tempo, l'Italia stava cambiando, la Prima guerra mondiale aveva cominciato a segnare profondi solchi nelle anime della gente e la rivista non trovava più quella vitalità che l'aveva fatta apprezzare e anche invidiare da alcuni.
Il 29 dicembre del 1913, Prezzolini lasciò definitivamente la direzione de La Voce, che prenderà da quel momento un'altra strada. Dal 1914 al 1916 la direzione passò a Giuseppe De Robertis, già assiduo collaboratore. Furono due anni difficili: Prezzolini e Papini, i due animatori, non c'erano più, ma il solco lasciato non era privo di frutti, tanto che gli ultimi collaboratori si chiamavano Ungaretti, Palazzeschi, Campana, Govoni, Bacchelli, Cardarelli e Rebora. Il futuro della poesia italiana.