Tra Marina Abramovic e il pubblico italiano esiste un rapporto piuttosto particolare. Amata da molti, criticata da non pochi.
Certamente è stata ben accolta, apprezzata, seguita e anche amata qui da noi. Ma a seguire alcuni post sui social network, non sembrerebbe minima la percentuale di coloro che tendono a muoverle delle critiche, talvolta denigratorie, soprattutto a seguito di alcune sue dichiarazioni di qualche tempo fa circa la scelta di non avere figli. Eppure la partecipazione ai suoi interventi performativi, lo studio e l’analisi del suo lavoro, l’interesse sincero da parte del pubblico italiano tra studenti, fruitori, artisti, galleristi e curatori, le garantiscono ancora una pozione decisamente predominante.
Criticata o apprezzata, Marina resta comunque una delle più grandi performer della storia dell’arte, una donna che ha inventato nuove modalità di utilizzo del corpo come linguaggio, sfidando i limiti di una resistenza personale e collettiva, sua e del pubblico. Proprio il concetto di “resistenza” è l’autentico fil rouge che ricorre nella sua produzione. Una costante sempre presente. Resistenza e rischio. Come se ogni limite avesse in realtà un senso soltanto nella misura in cui può essere valicato.
Marina ha origini serbe, è figlia di una coppia di partigiani che si innamorò e legò in seguito alla Seconda guerra mondiale. Nacque a Belgrado nel 1946. Il padre fu insignito del titolo di eroe nazionale, la madre divenne direttrice del Museo della Rivoluzione e Arte nella stessa città, ma la loro relazione non fu a lungo felice. Durante la sua infanzia, Marina dovette assistere a frequenti, infuocati litigi e il suo rifugio divenne la casa della nonna, una donna legata ancora a strane credenze e superstizioni. Nella sua autobiografia, la Abramovic racconta proprio dell’abitudine che sua nonna aveva di leggere i fondi di caffè, una pratica che attivava in cucina, la stessa cucina nella quale Marina faceva merenda, la stessa cucina nella quale amava raccontarle delle storie. Quel luogo domestico divenne per lei fulcro del mondo “il centro del mio universo, e tutti i miei ricordi più belli nascono lì”. Non a caso negli anni Duemila dedicherà proprio alla cucina uno dei suoi lavori più interessanti.
Pare, invece, che l’allenamento alla resistenza le arrivi proprio dal timore nei confronti di una certa impostazione educativa, potremmo dire di stampo militare, ricevuta dai suoi genitori. Marina racconta che quando volevano punirla, la rinchiudevano per lungo tempo al buio in uno sgabuzzino. A quella tortura lei riusciva a resistere soltanto chiudendo gli occhi e immaginando. In questa infanzia, vissuta in una terra abusata, si radica quello che poi diventerà il suo personale percorso umano e artistico, in cui il corpo diventa tutto e in cui lo spettatore diventa parte integrante dell’opera. Immobilità, gestualità cadenzata e ripetuta, superamento dei limiti propri e dell’altro, interazione empatica, messaggi politici.
Marina ha studiato pittura all’Accademia di Belle arti di Belgrado, ma l’interesse verso il linguaggio del corpo, verso un’arte intesa non come prodotto ma come evento, è sbocciato già alla fine degli anni '60. La prima performance che catalizzò su di lei una certa attenzione venne agita nel 1973 a Edinburgo. La intitolò Rhythm 10. L’artista dispose venti coltelli e due registratori sul pavimento. Lo scopo era quello di superare i limiti della paura e del dolore fisico, sottoponendosi a un gioco ripreso dalla tradizione russa. I coltelli vennero disposti in maniera ordinata, ben allineati, le sue mani poggiate sul pavimento, bene aperte. Quando partì il sonoro l’artista prese a sferrare colpi di lama tra le sue dita, seguendo il ritmo della registrazione. A ogni taglio che si procurava, cambiava coltello e ripartiva. Il secondo registratore le servì per documentarne i rumori in corso d’opera.
Su questa linea si snoda una sequenza di azioni performative che attraverserà gli anni Settanta e che la vedrà spesso esibirsi nel nostro paese. Marina è in Italia per la prima volta nel 1974, a Milano, ospite del lungimirante Luciano Inga Pin, all’interno della Galleria Diagramma, in via Pontaccio. Inga Pin è lo stesso gallerista che in quegli anni portò in Italia per la prima volta Gina Pane, con Azione Sentimentale – rose, lamette, sangue e candore – e che circa un ventennio più tardi presenterà al pubblico una novella studentessa di Brera, Vanessa Beecroft , con il suo Libro del Cibo, trasposizione performativa di una bulimia. Marina presentò una performance della durata di 45 minuti, dal titolo Rhytm 4.
Lei stessa descrisse in questo modo l’azione, nel numero di ottobre del 1975 della rivista Europa Arte informazione/ Kunst-information: “In uno spazio vuoto e illuminato vi è un grande e potente ventilatore dalla cui ampia apertura escono enormi masse d’aria. Avvicinandomi gradualmente all’apertura del ventilatore raggiungo uno stato di semi-coscienza a causa dell’eccesso d’aria. Ciononostante l’azione continua, benché io stia perdendo coscienza; infatti, il ventilatore tiene il mio viso in movimento, deformandolo sotto la pressione dell’aria. L’intero processo è registrato dalla videocamera e trasmesso contemporaneamente su due apparecchi televisivi di fronte al pubblico che si trova in due sale separate. L’azione è registrata in modo che la causa del mio comportamento (il ventilatore) non appaia sugli schermi, ma soltanto i suoi effetti (cioè i cambiamenti nel mio viso). Nelle sale con gli apparecchi televisivi il suono è percepito due volte. Il pubblico sente contemporaneamente il suono reale del ventilatore e lo stesso suono registrato sul video-tape”.
Nel 1975, a Copenaghen, realizzò Art Must Be Beautiful / Artist Must Be Beautiful, azione in cui l’artista, completamente nuda e stante di fronte al suo pubblico, prese a spazzolarsi i capelli con un ritmo lento e nervoso, ripetendo come un mantra la stessa frase che costituisce il titolo alla performance. Lo fece dapprima sottovoce, poi urlando. E più la voce si alzava più i colpi di spazzola si facevano violenti, tanto da sfregiarle il viso e rovinarle i capelli. Come se la bellezza fosse un dovere, una costrizione estetica che in verità, poiché innaturale, deturpa.
Lo stesso anno si spostò a Napoli presso lo Studio Morra, per agghiacciare il pubblico con una delle sue performance più semplici e al contempo più cruente: Rhythm 0. Marina aveva predisposto su un tavolo 72 oggetti tra cui fiori, piume, ma anche coltelli e una pistola. Poi era entrata nello spazio performativo ed era rimasta lì immobile. In piedi, vestita e statuaria al centro della stanza, ad attendere che gli spettatori le si avvicinassero. A quel punto a performare non sarebbe più stata lei, ma il pubblico, che per sei ore avrebbe avuto a disposizione la donna, inerme e passiva e una varietà di oggetti con i quali carezzarla o colpirla. “Il pubblico può uccidermi” dichiarò.
E questa, più che una performance, si rivelò essere un vero e proprio esperimento sociologico, poiché emerse la vera natura dell’uomo quando questi si trova in una condizione di assoluta libertà nei riguardi di un altro essere umano, la libertà di poter fare con l’altro e dell’altro ciò che gli pare. I gesti su lei furono dapprima timorosi, lievi e gentili. Poi si fecero pian piano insistenti e aggressivi. Marina riuscì a restare immobile e impassibile – ormai nuda perché le erano stati tagliati di dosso gli abiti, e sanguinante in alcuni punti del corpo poiché erano stati incisi con delle lame –, persino quando uno spettatore le puntò la pistola alle tempie. Non sparò perché scoccò il termine delle sei ore. Ma quando Marina tornò a rianimarsi, a muoversi e a parlare il pubblico stesso trasalì, come se non si fosse reso conto di aver agito tutta quella violenza non su un oggetto inanimato ma su una donna in carne e ossa.
Nel 1976 Marina si lega sentimentalmente e professionalmente a un artista tedesco di nome Ulay. Lo conosce ad Amsterdam e da qui in avanti realizza una serie di performance insieme a lui. Sempre in Italia, stavolta nella città di Bologna presso la Galleria d’Arte Moderna, agiscono insieme un’azione titolata Imponderabilia: si posizionano, entrambi nudi, davanti agli stipiti dell’ingresso, creando uno strettissimo passaggio per gli spettatori. Era possibile entrare in galleria soltanto passando attraverso i loro corpi. Evitare il contatto fisico era impossibile e questo generò non poco imbarazzo. Ma alla fine ad attraversare quel singolare varco furono 350 persone. Poi giunse la polizia e interruppe la performance.
Il connubio Abramovic-Ulay durò sino al 1988 e anche la loro separazione avvenne in forma di performance. Decisero di dirsi addio attraversando la Muraglia Cinese: Marina partì dall’estremità orientale sulle sponde del Mar Giallo, Ulay da quella occidentale nel Deserto dei Gobi. Un cammino durato 2500 km ciascuno, che li vide incontrarsi a metà strada e dirsi che era finita.
Sempre in Italia Marina torna negli anni Novanta, e per giunta ottiene uno dei più importanti riconoscimenti alla carriera: il Leone D’Oro alla Biennale di Venezia. Siamo nel 1997 e l’opera con cui vince questo premio è ispirata agli orrori delle guerre nei Balcani. Balkan Baroque una performance durational che l’ha vista per 4 giorni, sei ore al giorno, accovacciata su una montagna di ossa bovine insanguinate all’interno di un angusto scantinato. Marina era ferma lì, a testa bassa, a ripulirle una a una dalla cartilagine, dal sangue, dalla carne residua, come se stesse compiendo una sorta di rito di purificazione.
Il modo di costruire un’azione e di coinvolgere il pubblico che Marina mette a punto nei decenni, trova uno dei più alti momenti in The Artist is Present, la più durational delle sue performance, svoltasi nel 2010 presso il MOMA di New YorK e per un tempo di tre mesi. L’artista era presente per sette ore al giorno – ecco che ricorrono durata e resistenza – del tutto immobile, seduta su una sedia, davanti a un tavolo di legno. All’estremità opposta, una sedia vuota, sulla quale poteva accomodarsi chiunque e per un tempo impreciso. La performance consisteva allora in un gesto molto molto semplice: guardarsi negli occhi. Marina guardava dritto negli occhi e per tutto il tempo, la persona che le si accomodava di fronte. La persistenza dello sguardo reciproco generava di volta in volta reazioni tra loro assai differenti: c’è stato chi ha riso, c’è stato chi ha pianto, c’è stato chi non ha lasciato trapelare alcun segno di imbarazzo o di emozione. C’è stato chi ha resistito di meno e c’è stato chi ha resistito di più. E tra gli altri, a sedersi di fronte a Marina c’è stato anche Ulay.
La performance è stata documentata in 1545 scatti da un bravissimo fotografo italiano: Marco Anelli. Molti di quegli scatti sono stati poi esposti a Milano, esattamente due anni dopo, in una sorta di titanica installazione su tre pareti, presso il PAC, all’interno della mostra curata da Eugenio Viola e Diego Sileo e intitolata The Abramovic Method. “Senza il pubblico la performance non ha alcun senso” ha dichiarato l’artista, e da questa definizione, come dalla convinzione che l’esperienza performativa possa portare forti cambiamenti in chi la vive, ha preso le mosse il Metodo da lei messo a punto e presentato in questa occasione creando un percorso in cui il pubblico, performando sotto la sua guida – entrando in spazi di silenzio, usando cuffie, chiudendo gli occhi, camminando, sdraiandosi, ecc. – avrebbe imparato a osservarsi e ad ascoltarsi.
Nel 2017 una video-installazione dal titolo Holding the Milk e tratta dal progetto The Kitchen, Homage to Saint Therese avviato dalla Abramovic nel 2009, è stata ospitata presso la città di Alba, negli spazi della famiglia Ceretto. L’opera completa consta di diversi video, girati presso l’ex convento La Laboral a Gijón, un monastero certosino abbandonato ma che in passato ospitava bambini orfani, ed è ispirata alla vita di Santa Teresa d’Avila. Tutto si avvicenda all’interno della cucina di questo ex convento, ancora una volta intesa come “fulcro del mondo”.
Marina torna in Italia alle porte di questo autunno per una ricchissima retrospettiva che si terrà presso il rinascimentale Palazzo Strozzi di Firenze .The Cleaner verrà inaugurata il 21 settembre 2018. Curata da Arturo Galansino e organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi, la mostra sarà prodotta da Moderna Museet, Stoccolma in collaborazione con Louisiana Museum of Modern Art, Humlebæk e Bundeskunsthalle, Bonn. Verranno esposte fotografie documentative delle sue più celebri azioni performative, video, installazioni e molto altro, al fine di ricucire il percorso artistico di una delle pioniere della storia della performance art.