Non sappiamo se Barbera abbia pensato a un legame fra questi due film, decidendo di proiettarli alla giornata inaugurale della 75ma Mostra del Cinema di Venezia. In comune hanno entrambi il partire da una storia a tutti nota nelle conclusioni, ma per niente nelle modalità con cui si è svolta. In tutti e due c’è una ricostruzione credibile dei personaggi che l’hanno vissuta.
Cominciamo da First Man, la storia del primo uomo sbarcato sulla luna, il cui nome, Neil Armstrong, e la cui impresa sono universalmente noti. Come pure la data dell’allunaggio, 20 luglio 1969. Anche le generazioni nate dopo quell’anno conoscono la foto emblema della riuscita: un’orma di boot, quello di Neil Armstrong, su di un suolo grigio granuloso, il suolo lunare appunto. La ricostruzione di Damien Chazelle abbraccia gli anni tra il 1961 e il 1969, anni in cui la missione è stata preparata, e ne ricostruisce i retroscena; basata sul libro di James R. Hansen, racconta di ricerca appassionata, ma anche di contrasti, dubbi, paure, scelte politiche inopportune. Svela a quale costo per Armstrong e colleghi, e quale perdita di vite umane abbia comportato il successo della missione forse più pericolosa della storia. Le attrezzature di cui gli astronauti disponevano, in quei tempi lontani, erano poco più che scatole di latta, azionate in modo analogico e “manuale”.
In un’intervista così si esprime Damien Chazelle: “… cose che uno potrebbe montare nel garage, fatte a mano e bellissime, ma che sembrerebbero non poter sopravvivere a un viaggio in autostrada, figuriamoci sulla luna”. La partecipazione emotiva alla Storia è la chiave della narrazione filmica, che unisce la cultura del regista (sua madre è una storica) alla sua raffinata sensibilità nell’affrontare dinamiche psichiche profonde. A questo si unisce l’ottima scelta degli interpreti, in particolare di Ryan Gosling, così intenso ed espressivo, mai plateale, anzi un po’ enigmatico. Proprio come pare fosse Armstrong, sempre riservato e anche introverso, non modificato dalla fama raggiunta. La sua recitazione, come è giusto, non vuole, non può svelare tutti i retroscena, ma dà, di questi anni, una lettura plausibile e una lezione di operatività in contrasto con il mondo attuale, incentrato sulla filosofia del tutto e subito. In certe scene di suspence, in cui le apparecchiature non rispondono durante il volo, il sottofondo musicale ci trasporta in un mondo danzante, allentando la tensione. E poi si scopre che il nostro first man, al college, aveva scritto un musical di successo. L’unicità di Chazelle sta nella sua visuale descrittiva di leggerezza unita a grande rigore. Chi era rimasto interdetto di fronte all’argomento scelto, considerandolo altamente tecnologico e lontano dal racconto di Lalaland, capisce quanto sia opportuno che tutta la Storia dell’Uomo sia reinterpretata. E Chazelle, con questo film è il caso di dirlo, apre le danze! Ha dichiarato di essere stato molto aiutato per il gran numero di scene tecniche, e il gruppo di produttori famosi - Steven Spielberg per citarne uno - che ne hanno permesso la realizzazione la dice lunga sul sostegno di cui ha potuto disporre, oltre che sul consenso che il suo progetto aveva già creato sul nascere.
Sulla mia pelle è invece un caso giudiziario molto dibattuto, tuttora in corso, che riguarda la morte, il 22 ottobre 2009, di Stefano Cucchi, geometra con precedenti di droga, dopo solo sette giorni dall’arresto. Leggiamo nelle note di Alessio Cremonini, regista del film: "Un film che nasce dal desiderio di strappare Stefano alla drammatica fissità delle terribili foto che tutti noi conosciamo, quelle che lo ritraggono morto sul lettino autoptico, e ridargli vita. Movimento. Parola".
Per far questo il regista si è sobbarcato un immane lavoro, documentandosi sugli atti del processo e su testimonianze e interviste a chi lo aveva conosciuto. Il lavoro è basato sull'elaborazione di fatti verificati, senza prese di posizione o pregiudizi precostituiti, e può fronteggiare senza paura le polemiche che ne accompagnano l’uscita nelle sale (sarà distribuito in 190 paesi da Netflix). Non è una indebita sovrapposizione al lavoro della magistratura, ma piuttosto una ricerca sul concatenamento di eventi, reticenze, paure, reazioni emotive che hanno portato alla morte in sette giorni di un giovane che non era malato e andava in palestra. È un documento che mette di fronte all’opinione pubblica ciò che deve essere affrontato nella nostra società, ovvero la legge sulla tortura. E insieme fa riflettere sulla necessità di sveltire la burocrazia, che rappresenta un forte ostacolo al garantismo, cui ogni cittadino ha diritto, indipendentemente dalla sua storia pregressa. E sottolinea anche l’importanza che un cittadino abbia di conoscere i suoi diritti. L'Ignorantia legis è inammissibile, ma soprattutto pericolosa. E la distribuzione programmata da Netflix ci dice che di simili riflessioni ha bisogno tutto il mondo, non solo l’Italia.