"La Lady è una donna diabolica, molto diversa rispetto a quel che ero o mi sentivo io agli inizi della carriera. Pensavo che il ruolo, proprio per il suo aspetto satanico, non fosse nelle mie corde. Invece, poi, mi sono scoperta un temperamento inaspettato di 'cattiva': etichetta che mi è rimasta addosso per molti anni". Così la grande soprano turca Leyla Gencer, poco tempo prima di morire, a Leonetta Bentivoglio. Per Riccardo Muti, che la diresse negli anni Sessanta a Firenze, la Lady Macbeth della Gencer fu: "Un’apparizione da far tremare i polsi".
La donna perfida creata da Shakespeare e musicata da Giuseppe Verdi, al suo primo incontro con il Bardo, è tornata a Firenze dove il Maggio Musicale ha allestito alla Pergola, per i duecento anni dalla nascita del compositore, il Macbeth verdiano nella edizione originale, di rarissima esecuzione, andata in scena nel 1847 proprio nello splendido teatro fiorentino.
Una delle più grandi vessillifere del Male supremo, il Male vano e sconfitto, ha avuto le sembianze e la voce di Tatiana Serjan, efficace nel delirio del potere e molto applaudita, ma non ha rubato la scena al consorte Macbetto, come accade nella versione più rappresentata, quella di Parigi del 1865. Il maestro James Conlon, che ha diretto entrambe le stesure, può bene fare il raffronto e ha detto a Franco Manfriani, autore dell’intervista per il programma di sala: "Appare evidente che questa del 1847 è più incentrata sulla figura di Macbeth che ne risulta il protagonista assoluto […]. Certo la cabaletta fiorentina di Lady, 'trionfai', per quanto ben fatta, non è comparabile con la meravigliosa 'La luce langue' di quella parigina, ma tutta la parte 'fantastica': le streghe, l’apparizione, come il bellissimo duetto fra Macbeth e la moglie dopo l’uccisione di Duncano, sono già eccezionali e testimoniano di quella novità e di quel salto di qualità cui accennavo rispetto alle opere precedenti".
Il Macbetto di Luca Salsi si è goduto la supremazia del ruolo ed è piaciuto molto agli spettatori della prima, avvolti in un caldo tropicale che esaltava la morbosità della narrazione e profondamente emozionati all’idea di trovarsi nel luogo dove l’opera nacque, ma ha dovuto subire il fascino irresistibile delle streghe di Graham Vick. Il regista inglese, già autore di un Macbeth alla Scala, trova il tratto essenziale della drammaturgia dell’opera: "Nello scivolare passo passo di Macbeth verso l’abisso, il pericolo insito nel non avere limiti. Le streghe ad esempio hanno la funzione di dire ciò che non ammettiamo neppure di pensare. Ma Macbeth, proprio grazie alla predizione delle streghe, che ascolta e in cui crede, perde ogni senso del limite, ogni freno inibitorio e si spinge sempre più oltre […]. Le streghe rappresentano una sorta di proiezione dei pensieri più indicibili di Macbeth, sono coloro che portano alla luce ciò che egli ha dentro di sé […]. Nella parte più viscerale e primitiva della sua natura l’assassino è dunque già presente e le streghe lo spingeranno a superare ogni freno inibitorio, come egli fortemente desidera".
Queste creature Vick le ha volute di una terribilità tutt’altro che sovrannaturale o evocativa, ma disfatta, ironica, sprezzante del potere inevitabilmente corrotto, violento e incompiuto verso il quale spingono Macbeth. Abbigliate, imparruccate, impiastricciate con maestria dallo scenografo e costumista Stuart Nunn, in uno stile fra il meretricio e la periferia degradata, senza ritegno nell’oscenità, le coriste del Maggio, già note per la bravura di cantanti, hanno sfoggiato un talento straordinario di attrici e ballerine, con la personalità da soliste, capace ognuna di attirare l’attenzione su di sé, e l’affiatamento del gruppo collaudato, che ha esaltato il pubblico.
Del resto la cura per il singolo gesto e la singola espressione caratterizza lo spettacolo di Vick, importante e molto da festival, apprezzato, con le doverose eccezioni della libertà dei gusti, anche da chi di solito non gradisce gli spostamenti temporali. Il regista l’ha ben spiegato a Manfriani, nella conversazione pubblicata sul programma: "Gli interpreti di Macbeth e di Lady sono giovani e dunque più vicini allo spirito dei protagonisti del dramma, anche loro giovani. E quindi possono rendere al meglio l’ambizione, la fame, la voglia di arrivare che contraddistinguono la coppia shakesperiana. La tradizione interpretativa di Macbeth è spesso troppo polverosa, tanto che si fraintendono le indicazioni di Verdi: sottovoce, soffocato, cupo. Sono segni della grande sensibilità psicologica di Verdi e meravigliose intuizioni musicali: i due si cambiano infatti segreti indicibili, che non possono essere gridati. Poi va considerato che siamo in un piccolo teatro in cui giunge meglio allo spettatore la sfumatura psicologica, il gesto anche minimo, al singola parola, lo sguardo e dunque lo spettacolo sarà concentrato sui primi piani più che sullo sfondo". Applausi per la direzione magnifica di Conlon, l’orchestra e tutti gli interpreti. Il fragore e il movimento liberatori dell’applaudire dopo la tragedia, tuttavia ancora in agguato.
Poco distante da via della Pergola, in Corso Italia, vicino all’Arno mulinante, fiume stretto e insidioso, al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, la brama di potere uccide di nuovo: la Maria Stuarda di Donizetti condannata da Elisabetta va a morire con la voce e la compostezza della strabiliante Mariella Devia, detta la "madreterna" dai fan "deviati", per la quale gli elogi sgorgano copiosi e mai ridondanti. Senza le scene a darle mano, l’opera era in forma di concerto, la soprano ha fatto piangere e rabbrividire anche gli ascoltatori più smagati. Alcuni dei quali, rientrati a casa, si sono piazzati davanti a YouTube per rivederla nella scena finale della Stuarda scaligera. Altri si sono fatti un bicchiere di vino buono: per affrontare la commozione e brindare alla salute dell’Arte.