Del ritratto fotografico come genere e come forma ma, anche, quale modo per vedere e sentire la musica, per entrarvi dentro, oltre il suono e l'immagine. È la poetica che caratterizza il lavoro di Guido Harari, uno dei maggiori fotografi contemporanei di musica, a cui la Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia dedica la mostra Wall of Sound.
Nella storia della fotografia il ritratto fu da subito un genere che trasformò i modelli e le celebrità in persone “accessibili”. E ben presto, insieme ad artisti, scrittori e musicisti, entrarono negli studi fotografici anche attori e personaggi della musica e dello spettacolo.
Harari (Il Cairo, 1952), ispirato dai grandi fotografi di rock e jazz degli anni Cinquanta e Sessanta, si afferma già nei primi Settanta come fotografo e giornalista musicale, per diventare in seguito uno degli autori più originali delle celebrità della musica. A Perugia, nella rassegna curata da Marco Pierini, più di 100 fotografie si snodano tra celebri ritratti di musicisti rock, jazz e della musica classica. Da Fabrizio De André, di cui Harari è stato il fotografo personale, a Lou Reed, passando per Giorgio Gaber, Bob Dylan, Peter Gabriel, Enzo Jannacci, Riccardo Muti, Miles Davis e altri ancora.
Ma, Harari, ha firmato anche le copertine di dischi per artisti internazionali come David Crosby, Bob Dylan, B.B. King, Ute Lemper, Paul McCartney, Michael Nyman, Simple Minds e Frank Zappa, oltre ai lavori per i Dire Straits, Pat Metheny, Santana e, sul versante italiano, per Claudio Baglioni, Andrea Bocelli, Paolo Conte, Pino Daniele, Mia Martini, Zucchero e la Filarmonica della Scala. Un arcipelago musicale di enormi proporzioni.
Harari, non a caso, - come ricorda Pierini - possiede il raro talento di cogliere la personalità dei musicisti sia nel corso della performance sul palco sia nelle sedute durante le quali prendono forma i ritratti. E ciò accade per le contorsioni di Iggy Pop, così come con il ritratto di Philip Glass o per quello ironico di Ennio Morricone. Occhio e istinto, identità e realtà: sono queste le dicotomie su cui Harari fonda la sua linea formale e musicale. Linee guida che attraversano lo spazio temporale in cui si consuma il testo musicale, la performance e l'artista, in un affresco visuale dai risvolti intensi e profondi, che muovono da una concreta necessità: entrare dentro la musica, farla esplodere, renderla attrice essa stessa della scena teatrale.
Interessato più che mai a “fissare in un’immagine la persona che si cela dietro al personaggio”, Harari ricorda come in qualità di ritrattista si sia sempre posto al “servizio” dei propri soggetti e della loro “misteriosa alterità”. Infatti, “desideravo che potessero sempre riconoscersi nelle mie immagini, anche in quelle più imprevedibili e spiazzanti”.
E In questo senso vanno lette le foto di Harari secondo un ritmo costituto da echi, richiami, analogie che nel silenzio annullano la distanza degli stili musicali e consentono di associare Bob Marley e James Brown nelle stesse posture, Jeff Buckley e Fabrizio De André in un momento di riposo, la ‘solitudine’ di Pino Daniele e di Bob Dylan di fronte a migliaia di persone all'Arena di Verona, l’urlo di Luciano Pavarotti vicino a John Cage che si staglia sulla scritta “W il silenzio”. E dal bianco e nero al colore in Harari la significazione del soggetto rientra tutta nella capacità dell'autore a restituire identità e personalità, intensità e realtà.
Proprio così Harari racconta la propria avventura visivo-musicale dentro un immaginario fotografico, in cui si ammirano la figura magnetica di Patti Smith, Leonard Cohen, Tom Waits, Hannibal Lokumbe Peterson e la figlioletta Eternal in un momento di dolcezza e tenerezza, Buddy Guy e Keith Jarrett, e ancora i The Clash a Parigi e Lenny Kravitz, sino all'intenso ritratto di David Bowie, il “duca” della musica e del fascino artistico.