“Se riuscissi a fermare l’attimo, che ne farei?” scriveva Roberto Gervaso nel suo libro Il grillo parlante del 1983. Già cosa ne faremmo?
“Fermati attimo, sei bello!” esclamava il Faust di Goethe per indicare quella voglia, irrefrenabile, irreprensibile di fermare i momenti felici, quelli che abbiamo atteso e sognato, quelli che ci piacciono, quei momenti che vorremmo non finissero mai e invece vengono trascinati dal flusso inesorabile del tempo che li porta chissà dove lasciandoci solo il ricordo che abbiamo di loro. Uno scorrere unidirezionale rispetto al quale non abbiamo nessun potere e che ci rivela tutta la nostra limitatezza. Non la pensava così Sant’Agostino per il quale invece il tempo non scorre perché noi siamo sempre legati al presente e mai al passato che viviamo come ricordo e mai al futuro che viviamo come progettualità. È il nostro animo a misurare il tempo. Ognuno di noi ha il proprio orologio interiore. “La nostra percezione di una durata non dipende solo dall’unità di misura usata dal cervello per stimare il tempo passato. È decisiva anche la misura dell’attenzione che prestiamo a un certo evento. Se la coscienza si occupa nello stesso tempo anche di altre cose noi sottostimiamo il tempo trascorso; se invece siamo del tutto presenti i secondi si dilatano”, Stefan Klei, Il Tempo, 2015.
Attraverso il processo di termoformatura, una tecnica propria del packaging che sottraendo aria permette a un foglio di plastica di aderire perfettamente all’oggetto da avvolgere, Gino Sabatini Odoardi ferma l’attimo, “congela” un qualcosa (sia questo un bicchiere, un oggetto di vita quotidiana, una lapide, ecc.) lasciando che quel determinato foglio di plastica bianca (polistirene) si appropri dell’oggetto assumendone perfettamente la forma. A vedere quelle opere non sappiamo se siano soltanto il calco della forma di un bicchiere per esempio o se invece l’oggetto è ancora lì sotto protetto da quella plastica che lo ha sottratto allo scorrere del tempo. Non sappiamo se si tratta solo di una “forma”, di “apparenza” oppure se c’è anche della “sostanza”. Una dialettica quella tra essere ed apparire che nell’era di internet, delle comunità virtuali e della realtà virtuale manifesta tutte le sue potenzialità positive e negative. “C’è un silenzio del cielo prima del temporale, delle foreste prima che si levi il vento, del mare calmo della sera, di quelli che si amano, della nostra anima, poi c’è un silenzio che chiede soltanto di essere ascoltato” (Romano Battaglia, Un cuore pulito, 2001).
Visitare una mostra di Sabatini Odoardi significa muoversi in un mondo silenzioso, meditativo, senza tempo. Il colore unico e dominante è il bianco. Un colore che omogenizza le differenze in quanto contiene tutti i colori dello spettro luminoso, quindi tutte le differenze. In questo senso il bianco è il colore dell’Est dove sorge il sole simboleggiando così l’inizio di tutto. Allo stesso modo il bianco può essere inteso come assenza di colori. In questo senso il bianco è il colore dell’Ovest dove muore il sole simboleggiando così la fine di tutto. Il bianco quindi essendo l’inizio e la fine è il colore dell’assoluto e pertanto simboleggia un processo di rinascita e trasformazione. Se ci pensiamo bene il vestito della sposa è bianco, così come il vestito della prima comunione, solo per fare alcuni esempi della nostra cultura che testimoniano il cambiamento, una vita nuova. Tutto ciò non è casuale nella pratica di Sabatini Odoardi dove il bianco diventa il colore di ciò che l’artista ha “congelato” fermando così lo scorrere del tempo e che da un momento all’altro potrebbe essere reimmesso nel fluire del tempo eliminando quella pellicola bianca che oramai è il segno distintivo dell’artista. Nel mondo del packaging quella pellicola ha una funzione protettiva del prodotto che avvolge.
La pratica di Sabatini Odoardi ha in sé quindi anche un senso di cura e di protezione di quell’attimo che non vorremmo finisse mai, di quegli oggetti dai quali non vorremmo separarci mai. “Ma il tempo, il tempo, chi me lo rende?| Chi mi dà indietro quelle stagioni | di vetro e sabbia, chi mi riprende | la rabbia, il gesto, donne e canzoni, | gli amici persi, i libri mangiati, | la gioia piana degli appetiti, | l’arsura sana degli assetati, | la fede cieca in poveri miti?” (Francesco Guccini, Lettera, 1996).