La Cicoria selvatica (Cichorium intybus – Fam. Asteraceae) è una pianta diffusa in tutto il mondo, soprattutto nei terreni incolti, nei prati e lungo i margini di strade e sentieri. Si presenta ruvida al tatto, con una radice a fittone, ingrossata, ricca di lattice amaro, un fusto eretto, ispido e foglie basali disposte in rosetta, caratterizzate da una lamina incisa in maniera irregolare, con segmenti triangolari acuti. I fiori sono di colore azzurro intenso, riuniti in capolini di 2-3 elementi, portati da brevi penducoli e disposti all'ascella delle foglie.
Nel mondo si coltivano numerose varietà di Cicoria, caratterizzate da forme e colori diversi (bianche, verdi, rosse o variegate); tutte sono lontane parenti della specie selvatica, i cui caratteri ancestrali si sono modificati nel tempo sulla spinta di adattamenti ambientali, ibridazioni naturali e pazienti selezioni operate dall'uomo. Le più comuni sul mercato sono: la migliorata, la spadona, la catalogna, il pan di zucchero, la brindisina, la bianca di Milano, l’indivia Belga, la cicoria di Brunswich e vari tipi di radicchio (trevisano, veronese, lombardo, sanguigno di Milano, ecc.), le cui evidenti diversità cromatiche sono il risultato di particolari tecniche colturali (“imbianchimento”), indotte da forzate condizioni di luce, temperatura e umidità.
Storia, miti e leggende
Se esistesse una speciale graduatoria capace di valutare il livello di apprezzamento riservato alle erbe selvatiche, la cicoria occuperebbe uno dei primi posti. Già la “radice” etimologica del suo nome la rende una candidata vincente: secondo alcuni autori, infatti, il termine cichorium deriva dal greco kichora o addirittura dall’egiziano kichorion, parola nata dall’accostamento di kio, nel significato di “io”, e chorion, riferito a “campo”. Invece il nome specifico intybus, citato da Virgilio, Plinio e Ovidio, è riconducibile al greco entybion, da cui deriva il termine italiano “indivia”.
Nel linguaggio dei fiori simboleggia la frugalità e la temperanza. Era chiamata anche “erba del sole” e considerata simbolo di rinascita spirituale. Apprezzata fin dall'antichità per le sue proprietà medicinali e alimentari, era nota agli antichi egizi che la citano in alcuni trattati (tra cui quello di Ebers risalente al 1500 a.C.) come ingrediente fondamentale di numerosi rimedi a base di erbe. I medici del tempo, per curare il mal di testa, consigliavano di applicare sulle tempie il succo fresco di questa pianta, unito ad aceto e olio di rosa; mentre per uso interno era utile per stimolare la funzionalità del fegato e dei reni.
Importanti personaggi del passato, come Plinio il Vecchio, ne hanno elogiate le sue virtù curative, ritenendola un eccellente depurativo del sangue. Il famoso medico greco Galeno la considerava “amica del fegato e non contraria allo stomaco”. Orazio (I sec. d.C.) consigliava di consumarla insieme alla Malva e alle olive per mantenere in forma e in salute il corpo. Nei banchetti delle famiglie ricche romane veniva servita in grandi quantità, accompagnata da uova di tordo, beccafichi e pavoni.
Santa Ildegarda di Bingen nel XII secolo la consigliava per le sue proprietà tonico-rigeneranti, mentre per Castore Durante era un eccellente rimedio per le donne con “mammelle languide”, poiché il succo della radice e delle foglie, applicato localmente, poteva donare un seno “pieno e turgido”. Nella tradizione popolare era usanza sistemare le foglie di questa pianta sotto il corpo delle partorienti per alleviarne i dolori.
In Germania è conosciuta con il nome sponsa solis, “sposa del sole” o di “guardiana delle strade”. Tali appellativi traggono ispirazione da un'antica leggenda che narra la storia di una principessa abbandonata dal suo sposo; la ragazza, straziata dal dolore, non riesce a sopportare la perdita del suo unico amore e prima di morire esprime il desiderio di potere continuare a vedere il suo principe. Dio commosso da tanta perseveranza, le concede questa consolazione trasformandola nella pianta dai fiori celesti che tutti osserviamo sui prati e lungo i bordi delle strade. Sempre in tema di amore si credeva che la radice, recisa con una lama d'oro o il corno di un cervo, potesse assicurare fedeltà e amore eterno.
Raccolta nel giorno dedicato a San Pietro e Paolo, fungeva da potente talismano efficace per eliminare il malocchio, allontanare gli spiriti malvagi e rendere invisibile il suo possessore. In passato, nelle campagne erano in molti a svolgere il mestiere di “cicoriaro”: erbivendoli ambulanti che raccoglievano la Cicoria selvatica nei capi per venderla poi nei mercati rionali.
Impieghi alimentari e officinali
L'intera pianta contiene vari principi amari (lattucina e lattucopicrina), acidi organici (cicoresico e cicorico), intibina, arginina, colina, inulina (contenuta in grande quantità nelle radici fresche), levulosio, sostanze tanniche e resinose, tracce di olio essenziale, mucillagini, vitamine (B, C, P, K e provitamina A) e sostanze minerali (zinco, rame, potassio, sodio, magnesio, calcio, ferro, manganese).
La Cicoria selvatica è un prezioso alimento-medicina: le sue radici vengono raccolte in autunno e impiegate in vari modi. Dopo averle lavate e raschiate accuratamente possono essere consumate crude in insalata oppure lessate, cotte al forno o aggiunte a zuppe, minestroni o creme. In passato, in particolare durante le carestie e i periodi bellici, l’impiego più diffuso avveniva sotto forma di bevanda, che fungeva da succedaneo del caffè. Le radici, una volta estratte dal terreno, venivano lavate, tagliate a pezzi e fatte essiccare al sole o al calore moderato di un forno; in seguito subivano un processo di torrefazione (spesso insieme ad altri ingredienti secchi come orzo, ceci, bardana, tarassaco e fichi) per essere poi impiegate nella preparazione di un infuso più o meno gradevole, che possedeva il colore del caffè, ma non il suo aroma né la sua carica stimolante. Oggi il caffè di cicoria ha un mercato molto ristretto e può essere acquistato nei negozi dietetici, specializzati in alimentazione naturale, mentre nei paesi dell’Europa del Nord è una bevanda molto diffusa, spesso impiegata per “tagliare” le miscele di caffè, in modo da attenuare gli effetti eccitanti sul sistema nervoso.
Il gradevole gusto “caramellato” della radice di Cicoria, che si ottiene dopo averla tostata, è dovuto alla presenza di sostanze zuccherine; la scoperta di questa proprietà, avvenuta nel 1600, è attribuita al botanico e medico Prospero Alpini; il suo successivo impiego commerciale è dovuto all’intuizione e alla perseveranza degli Olandesi, che nel XVIII secolo iniziarono a coltivarla con l’intento di impiegarla come surrogato del caffè.
La coltivazione della Cicoria a questo scopo ebbe un considerevole successo in epoca napoleonica, a causa del blocco dell’importazione di zucchero di canna e caffè voluto dall’Imperatore. Sempre dalla radice si estrae l'inulina, un oligosaccaride (oligofruttosio) utilizzato dall'industria alimentare come additivo e addensante. Tale sostanza ha la capacità di attraversare l'apparato digerente senza subire alcuna trasformazione e i suoi effetti benefici si manifestano a livello del colon, stimolando la produzione e la crescita della flora batterica utile a scapito di quella patogena. Tale condizione determina un aumento del volume della massa fecale e del transito intestinale, un'azione trofica sui villi della mucosa intestinale, un incremento dell'assimilazione dei macro-nutrienti e un rafforzamento dell'attività del sistema immunitario.
Anche le foglie della Cicoria sono importanti dal punto di vista alimentare: si utilizzano quelle della rosetta basale, raccolte in primavera, prima della formazione del fusto, per evitare che il loro sapore diventi eccessivamente amaro. Si consiglia di asportarle recidendole 2-3 cm sopra il colletto, in modo da consentire alla pianta di ricacciare prontamente nuovi getti. Vengono consumate, previa cottura, da sole o con altre verdure, condite con olio extravergine di oliva oppure ripassate in padella con aglio, pepe o peperoncino; per un tocco di gusto e raffinatezza in più è consigliabile aggiungere qualche filetto di acciuga.
La Cicoria è ideale per farcire piadine, focacce, torte rustiche e ravioli oppure per accompagnare varie pietanze a base di verdure, carne e formaggi o nella preparazione di zuppe e minestre. Il sapore amaro della Cicoria (dovuto alla presenza di acido cicorico) non è apprezzato da tutti, ma può essere bilanciato dalla combinazione di altre verdure e dalla dolcezza tipica di alcuni legumi, come fagioli, fave, ceci e cicerchie. Questa pianta è utilizzata come ingrediente principale di numerose ricette tradizionali di misticanze cotte come l’aquacotta alla maremmana, la minestrella di Gallicano, la foja mmisca del Salento o l’erua pazza della Ciociaria. Alcune varietà coltivate a foglia larga (ad esempio la trevisana) sono ottime preparate alla griglia e condite con olio extravergine di oliva.
Le foglie più tenere sono utilizzate crude, in piccole quantità (a causa del loro sapore amaro), nelle misticanze primaverili. I petali dei fiori possono essere utilizzati per decorare insalate, minestre zuppe, salse e formaggi freschi. La Cicoria è una pianta tonico-digestiva, con proprietà depurative, diuretiche, lassative, ipoglicemizzanti, antiossidanti, stimolanti l'appetito e le funzioni epatiche e biliari (azione esercitata principalmente dai principi amari).
Nella medicina popolare è indicata per la cura dei calcoli renali, dei dolori reumatici, della gotta e delle parassitosi intestinali. L’acqua della lessatura di radici e foglie era bevuta a scopo terapeutico per “pulire” e “rinfrescare” l’intestino. Dal decotto di foglie e radici fresche, con l'aggiunta di zucchero, si prepara uno sciroppo ad azione digestiva e stimolante le funzioni intestinali. Nella medicina popolare il succo fresco delle foglie, unito ad aceto e olio di rosa rappresentava un valido rimedio contro il mal di testa; mentre le radici fresche pestate, per la loro azione rinfrescante ed emolliente, erano applicate sul viso in caso di pelle arrossata.
Nell’ambito della Floriterapia (Fiori di Bach), questa pianta è conosciuta come Chicory: un ottimo rimedio per i soggetti sofferenti di “eccessiva possessività”, focalizzata soprattutto sulle persone vicine come coniugi, parenti e amici.
Tratto da Cultura e salute delle piante selvatiche – Le radici, di Maurizio Di Massimo e Sandro Di Massimo, Aboca Edizioni