L’intelligenza è un’arte. Si avventura nell’indeterminato, nell’incerto, nell’ambiguo ma deve anche verificare il troppo certo, il troppo noto. L’intelligenza è la virtù di non lasciarsi ingannare né dalle apparenze esterne né da abitudini, desideri, paure interne. L’intelligenza è impegnata nella lotta permanente e multiforme contro l’errore.
(Edgar Morin, Il Metodo vol. 2. La vita della vita)
Intelligenza Artificiale
Quando hanno cominciato a svilupparsi i computer digitali nei primi decenni del Novecento, si parlava di “teoria degli automi” – quella che in seguito sarebbe stata definita come computer science - per riferirsi allo studio di processi meccanici di manipolazione di simboli che potessero rispecchiare le modalità di funzionamento del pensiero umano, e di “cibernetica” come campo di studi interdisciplinare che si occupava di comprendere “il controllo e la comunicazione nell’animale e nella macchina”, così come definito da uno dei padri fondatori, Norbert Wiener.
Solo negli anni successivi John McCarthy, al fine di ottenere un finanziamento dalla Rockefeller Foundation per realizzare un workshop estivo a Dartmouth nel 1956 da realizzarsi insieme ad altri ricercatori quali Minsky, Shannon e Rochester, attribuì un nuovo nome per questo campo di ricerca che via via si stava sviluppando, per distinguerlo da quello appena coniato da altri – la cibernetica appunto - e che fosse allo stesso tempo abbastanza evocativo e sexy da attirare i finanziamenti necessari per il suo sviluppo: Artificial Intelligence, da cui l’acronimo AI. Da quel momento in poi, il termine “intelligenza” e l’attribuzione dell’aggettivo “intelligenti” riferendosi a macchine che avrebbero dovuto simulare le capacità di pensiero e di linguaggio umano hanno trovato sempre più consensi e diffusione.
Agency
Fino all’introduzione dirompente, a fine novembre del 2022, dell’Intelligenza Artificiale Generativa sui mercati mondiali grazie all’azienda OpenAI e al suo modello definito ChatGPT, quando parlavamo di Intelligenza Artificiale ci riferivamo prevalentemente a sistemi definiti come “ADM”, Automated Decision Making systems.
Si tratta di tecnologie usate per automatizzare dei processi decisionali, trasformando - attraverso degli algoritmi predittivi - i dati che ricevono in entrata in dati in uscita. I dati in uscita possono essere utilizzati per svolgere compiti diversi: dai termostati utilizzati abitualmente nelle nostre case per accendere e spegnere i sistemi di riscaldamento o raffrescamento in base alla temperatura desiderata, ai veicoli a guida autonoma, in grado di rilevare l’ambiente circostante tramite sensori, monitorare la presenza di ostacoli e verificarne la distanza, e di elaborare tutto questo definendo le migliori modalità di guida da attivare lungo il percorso.
Queste tecnologie possono richiedere in gradi diversi un intervento diretto o una supervisione umana, ma il modo in cui il sistema arriva a decidere è interamente automatizzato e spesso non conoscibile dagli stessi umani che hanno scelto i dati di addestramento e predisposto l’algoritmo applicativo.
Ciò che rileva è che sono macchine in grado di dare una serie di output, ovvero di risultati, che aiutano a prendere decisioni in contesti di incertezza. Sono di largo utilizzo nei processi decisionali, per esempio nella ricerca e selezione del personale, nell’accordare un mutuo bancario piuttosto che nell’effettuare una diagnosi particolarmente difficile.
Questi sistemi hanno la capacità di perseguire con successo lo scopo che è stato loro assegnato: questo aspetto, estremamente rilevante, è ciò che in inglese viene chiamato agency, e che in italiano può essere tradotto con “agentività”: sono agenti in grado di risolvere problemi. Questa agency permette infatti di risolvere problemi circoscritti attraverso delle modalità statistiche, ovvero attraverso l’accesso a grandi quantità di dati e la loro rielaborazione grazie a potenti capacità computazionali.
Lo scollamento tra l’agire con successo e l’essere intelligenti
L’agentività potremmo considerarla una capacità strategica dell’azione: il saper raggiungere un obiettivo prefissato nel miglior modo possibile. Negli animali, in particolare nei mammiferi – e quindi in noi umani - questa strategia d’azione è indissolubilmente legata a una strategia cognitiva.
L’azione è guidata dalla capacità di discernere tra ciò che già si conosce, e di cui quindi si ha esperienza, e ciò che sta effettivamente accadendo e che potrebbe essere diverso e sorprendente. La strategia cognitiva è quindi la capacità di confrontare l’atteso con l’inatteso, di valutare ciò che accade con ciò che non è ancora accaduto e di modificare così ciò che si conosce. Si tratta di una vera e propria capacità di apprendimento, che collega le decisioni prese, e quindi le azioni compiute, con ciò che queste hanno determinato nelle azioni di altri soggetti e nel contesto di cui si è parte. La capacità di azione ha bisogno della capacità cognitiva, e questa a sua volta ha bisogno della capacità di azione: entrambe sono necessarie per intrecciare, tempo per tempo, una strategia in funzione di ciò che accade. Con le parole di Edgar Morin1:
La strategia dell’azione richiede una strategia cognitiva. L’azione ha bisogno in ogni istante di discernimento e discriminazione per rivedere/correggere la conoscenza di una situazione che si trasforma. Le due strategie sono in costante interazione. Questa doppia strategia si sviluppa soprattutto nella relazione cacciatore/cacciato, che stimola al massimo le qualità della preda e del predatore. Il gran gioco della caccia è il pieno impiego simultaneo di una strategia cognitiva e di una strategia d’azione.
Abbiamo così due parole, agency e intelligenza, che nelle nostre attitudini cognitive sono indissociabili. Quando qualcosa mostra agency, ovvero riesce ad agire con successo sul proprio contesto, per noi vuol dire che possiede necessariamente capacità di scelta e di autonomia decisionale. In breve, la consideriamo anche una forma di intelligenza.
Come affermano Luciano Floridi e Federico Cabitza2:
L’AI oggi non è il matrimonio tra ingegneria (artefatti) e biologia (intelligenza almeno animale, se non umana) ma il divorzio dell’agire (agency) dalla necessità di essere intelligenti per avere successo. (…) Questo divorzio tra agency artificiale e intelligenza naturale, tra agere e intelligere, è rivoluzionario.
Rispetto all’Intelligenza Artificiale dovremmo pertanto provare a fare uno sforzo cognitivo per realizzare - come suggeriscono gli Autori – una sorta di divorzio, di scollamento, fra “agire con successo” e “agire con intelligenza”. Dovremmo immaginarle separate: capire che ciò che mostra agency non necessariamente è intelligente. Questo è un primo passaggio non facile da realizzare, e che Floridi e Cabitza definiscono, senza timore di eccedere, rivoluzionario. Capire che ciò che ha agito con successo non necessariamente è anche dotato di intelligenza.
Intelligenza disincarnata
Eppure, le macchine dotate di agency, di capacità di prendere decisioni, sono considerate da noi umani come “macchine intelligenti”, e perdiamo tempo a chiederci se siano più o meno intelligenti di noi e se ci stiano addirittura superando nelle nostre capacità cognitive.
Per definire l’IA come una forma di intelligenza, dovremmo avere molto più chiara la cornice di riferimento entro la quale la stiamo posizionando: disincarnata, simulata, non relazionale, astratta. Tornare a Cartesio, con buona pace su come si è evoluta la scienza dal 1600 sino ad oggi. E valutare il tutto solo in termini di tecnologia sempre più sofisticata.
Ma può esistere un’intelligenza disincarnata? Possono esistere esseri – di qualsiasi forma e sostanza essi siano – che non hanno relazioni con il mondo così com’è e che sono considerabili comunque come intelligenti? Se seguiamo un approccio cartesiano, in cui mente e corpo, e per estensione mente e natura, sono separati e separabili, sì. Le premesse sono evidenti: non ci sono relazioni tali da modificare il contesto, tutto è separabile, e l’intelligenza diventa una astrazione, separata e separabile a sua volta dalla realtà. L’intelligenza rimane la capacità di risolvere problemi.
Ma siamo certi che tutti i problemi siano, per definizione, risolvibili? Siamo certi, assolutamente certi, che non esistano anche, e soprattutto, problemi che non hanno di per sé soluzione, ma che richiedono invece di muoversi nell’incerto, nell’ambiguo, nella pluralità di possibili micro-soluzioni? Siamo certi che non occorra, contestualmente, immaginare, supporre, ipotizzare anche gli effetti a catena, nel tempo e nello spazio, di queste possibili micro-soluzioni, fino ad arrivare a un livello macro, globale, in cui queste stesse soluzioni possono divenire i nuovi problemi da affrontare, molto più difficili e incerti? La realtà permane – che ci piaccia o no – mutevole, intrecciata e impredicibile.
Edgar Morin ci insegna che l’intelligenza è un’arte, e non una mera capacità di calcolo statistico, per quanto veloce possa essere. E per quanto questa capacità possa essere in grado di scegliere l’opzione migliore con grande certezza, nulla ci assicura che possa, nel tempo, risultare l’opzione sbagliata.
Note
1 Morin Edgar, Il Metodo, vol. 2. La vita della vita, Raffaello Cortina Editore, 2004.
2 Floridi Luciano e Cabitza Federico, Intelligenza artificiale. L’uso delle nuove macchine, Bompiani Editore, 2021.