L’accesso alle risorse minerarie della Luna, di Marte e degli asteroidi, vedrà nei prossimi decenni gli Stati Uniti rivaleggiare con Cina, Russia e India, per cercare di mantenere e consolidare la propria leadership nello Spazio, e così garantirsi anche una preminenza economica, politica e militare.

Per raggiungere questo obiettivo, nel 2010 la NASA decise di seguire una nuova strategia mirata (Low Earth Orbit Economy) per una vivace ed economica presenza nell'orbita terrestre bassa, che sia sostenibile e sicura. Un sistema che si basa sulle lezioni apprese in oltre un decennio di lavoro e di esperienza con società private, e le applica, al fine di ottenere significativi risparmi mantenendo alti parametri di qualità e di sicurezza.

L’idea principale era di abbandonare i costosi progetti fatti “in casa a proprie spese”, a favore delle industrie nazionali. Lo scopo, oltre a ridurre l’impegno finanziario dell’Agenzia che così poteva indirizzare le scarse risorse verso campi specifici come il programma Orion, era di realizzare nuove astronavi, satelliti e programmi esplorativi a basso costo, per mantenere efficacemente la presenza degli Stati Uniti nell’orbita bassa nel terzo millennio.

A dieci anni dal suo “lancio”, la Low Earth Orbit Economy (LEOE) ha dimostrato di essere in grado di ottenere risultati apprezzabili a costi sempre più concorrenziali, grazie al coinvolgimento delle industrie aerospaziali “storiche”, e di nuove e più dinamiche Start-Up, che lavorando in regime di concorrenza sono riuscite a sviluppare un’intera nuova gamma di attività, con l'uso di risorse innovative idonee alla comprensione, gestione e utilizzo dello Spazio, che hanno avuto, e avranno, benefiche ricadute anche sull’economia del nostro pianeta.

Sarà quindi questa strategia a colmare il divario attuale tra l'esplorazione spaziale tradizionale, a carico di un singolo Stato, spostandolo sulle imprese private che, a fronte di ricche prospettive, investiranno, a proprio rischio, ingenti capitali.

Una situazione che in qualche modo ci ricorda la Rivoluzione Industriale, durata una sessantina d’anni dalla fine del 1700 alla prima metà dell’800, che comportò un insieme di rivoluzioni settoriali nell’agricoltura e nell’industria, grazie all’utilizzo di nuove fonti energetiche e all’invenzione di nuovi macchinari, come la macchina a vapore, che da sola simboleggia questo periodo storico, ma che fu solo uno fra i tanti fattori dell'industrializzazione e solo una fra le innumerevoli innovazioni tecniche dell'epoca.

Sebbene le cause precise di questo fenomeno d'industrializzazione non siano state ancora interamente definite, appare chiaro che furono più elementi convergenti e reciprocamente trainanti a determinarla. Allo stesso modo sta accadendo oggi con la LEOE, che sta creando nuove opportunità che miglioreranno anche la vita qui sulla Terra, grazie a industrie ed enti privati capaci di rischiare per creare nuove opportunità di crescita nel settore spaziale.

Che gli investimenti in questo settore siano ingenti, lo dimostra il fatto che lo spazio è, e sarà, una parte sempre più ampia dell'economia globale del futuro. Infatti, secondo gli analisti, entro il 2035 l'economia spaziale dovrebbe raggiungere 1,8 trilioni di dollari, rispetto ai 630 miliardi di dollari attuali (dati del 2023) con un tasso di crescita medio del 9% all'anno, una cifra significativamente superiore al tasso di crescita media del PIL globale.

Questo ambizioso obiettivo però, potrà essere raggiunto solo con una stretta alleanza fra gli Stati Uniti e i governi delle altre Nazioni che hanno aderito agli “Artemis Accord”, e che sono già arrivati a 47 con il Cile, attualmente l’ultimo firmatario (2024).

Questi accordi di collaborazione, messi in atto dalla NASA, però non costituiscono solo un vincolo che consentirà ai firmatari di partecipare al programma lunare Artemis, ma sono una sorta di atto costitutivo che richiama i sottoscrittori a una condivisione di principi e al rispetto dei Trattati ONU sullo Spazio. Un piano che, ovviamente, vede in prima linea partner storici con i quali la NASA ha in gestione la Stazione Spaziale Internazionale, escluso la Russia, che da tempo aveva annunciato l’intenzione di abbandonare la ISS a favore di una propria stazione spaziale, e che ha già firmato un accordo di cooperazione con la Cina, che dispone già di una stazione autonoma, e che ha dichiarato di voler sbarcare sulla Luna entro il 2035.

Il quadro internazionale nello Spazio sta quindi rapidamente cambiando passo, abbandonando i metodi utilizzati durante i tempi pionieristici del secolo scorso, per la maggior parte influenzati dalla Guerra Fredda, per guardare allo spazio non solo come strumento di supremazia, che comunque resta con ancor più forza rispetto a quello che era negli anni ’50, ma come catalizzatore universale per la ricerca scientifica e lo sviluppo economico, inteso come forza modernizzatrice con forti ricadute per le industrie e per le popolazioni. Un’opportunità valida sia per gli Stati Uniti e i suoi alleati, che per Cina e Russia, India e i loro partner, che se colta nei suoi aspetti positivi potrebbe portare a una distensione dei rapporti fra Oriente e Occidente, in nome di una comune prosperità nello Spazio.

L’ingresso delle industrie e dei privati nell’agone spaziale, grazie allo sviluppo delle tecnologie e della I.A, hanno già aumentato il livello di sicurezza dei lanci oltre ogni più rosea aspettativa, spingendo inevitabilmente allo sviluppo di componentistica spaziale di nuova generazione, che a sua volta permetterà la produzione di satelliti e lanciatori sempre più convenienti, aprendo di fatto l’accesso allo spazio anche a privati e governi, che solo pochi anni fa non avrebbero avuto nessuna possibilità di accedervi. Tutto ciò consentirà alle industrie statunitense e ai suoi alleati di mantenere una solida presenza nello Spazio, e di aprire un mercato che permetterà una benefica ricaduta sull’economia mondiale, e che in prospettiva potrà trovare nuove soluzioni a beneficio dell’ambiente, della sostenibilità climatiche e alimentare.

Un esempio di questa nuova visione è la richiesta fatta dalla NASA a Boeing e SpaceX, per la fornitura “chiavi in mano” di due nuove astronavi traghetto, che ha portato alla realizzazione della Starliner di Boeing e della Crew Dragon di SpaceX.

Ma il progetto della Boeing, che fu protagonista del programma lunare Apollo ed è il maggior fornitore di tecnologie militari al Governo, è diventato un mezzo disastro, procurando all’azienda un passivo così elevato, da indurla a vendere il ramo d’impresa spaziale, e quindi il progetto Starliner, insieme a tutti gli altri settori connessi, compreso la quota maggioritaria nella United Launch Alliance (ULA), nata nel 2006 in associazione alla Lockheed Martin, che fornisce servizi di lancio con i suoi razzi Delta IV, Atlas V e Vulcan, quest’ultimo in collaborazione con la “Blue Origin” di Jeff Bezos.

L’idea della NASA di rivolgersi alle industrie nazionali per la realizzazione di due nuove astronavi risale al 2010, con l’approssimarsi del ritiro dello shuttle dal servizio attivo (2011), per raggiunti limiti di età operativa e conseguente riduzione dei parametri di sicurezza.

Tuttavia, la decisione, presa in un periodo nel quale la collaborazione con la Roscosmos non era viziata da contrapposizioni politiche, indusse gli Stati Uniti a dipendere esclusivamente dalle Soyuz per trasportare i propri astronauti alla stazione. Un “passaggio” che oltre alle ovvie complicazioni logistiche, costava all’agenzia statunitense 86 milioni di dollari a passeggero. Un accordo che però, oltre che costoso, non era molto gradito agli americani, per l’imbarazzante e totale subordinazione ai russi per l’accesso alla ISS. Problema che si sarebbe potuto evitare se fosse stato disponibile in tempo un degno successore allo shuttle, ma che la cronica mancanza di finanziamenti adeguati ha impedito.

In questa situazione, la NASA decise che invece di progettare al proprio interno un altro veicolo, e poi assumere appaltatori aerospaziali per costruirlo come era stato fatto in tutti gli anni precedenti, si sarebbe rivolta direttamente alle industrie aerospaziali statunitensi, mettendole in competizione fra loro, e finanziandone i progetti migliori, ma, a prezzi bloccati, e quindi con gli eventuali esuberi per ritardi o errori tecnici a totale carico degli appaltatori.

Le prime selezioni risalgono al 2010, quando la NASA mise a disposizione 50 milioni di dollari per il Commercial Crew Development Round 1 (CCDev1). Lo scopo era di stimolare interesse all'interno del settore privato, per sviluppare progetti di astronavi capaci di trasportare un equipaggio in modo sicuro, affidabile ed economico alla ISS. A questo round parteciparono: Blue Origin (che si assicurò $3.7 milioni); Boeing ($18 milioni); Paragon Space Development Corporation ($1.4 milioni); Sierra Nevada Corporation-SNC ($20 milioni) e United Launch Alliance ($6.7 milioni).

La seconda selezione (CCDev2), prese il via nell'aprile 2011, quando la NASA stanziò quasi $270 milioni a favore di quattro aziende selezionate dal primo gruppo: Blue Origin (che ebbe $22 milioni); Boeing ($92.3 milioni); Sierra Nevada Corporation ($80 milioni) e SpaceX ($75 milioni).

Tre di queste si aggiudicarono nell’agosto 2012 i fondi del Commercial Crew Integrated Capability (CCiCap). Boeing ricevette $460 milioni, SpaceX $440 e Sierra Nevada Corporation $212,5. Alcuni mesi dopo arrivò un ulteriore finanziamento allo scopo di accelerare lo sviluppo dei progetti, con altri $20 milioni a Boeing, $20 milioni a SpaceX e $15 milioni a Sierra Nevada Corporation. Infine, a dicembre, arrivarono i contratti per la certificazione dei prodotti (CPC) con $9.993 milioni a Boeing, $10 milioni a Sierra Nevada Corporation e $9.589 milioni a SpaceX.

In totale, agli inizi del 2013, i fondi assegnati corrispondevano a $600,293 milioni a Boeing, $544,589 milioni a SpaceX mentre a Sierra Space (sussidiaria di SNC) $337,5.

Tutti i progetti erano promettenti e innovativi. Sebbene SpaceX seguisse un approccio classico con il rientro in mare della Dragon, la tecnologia proprietaria di lanciatori riutilizzabili Falcon, la poneva al primo posto per l’economicità dei lanci. D’altro canto, anche il progetto della Sierra presentava grandi vantaggi, con il suo piccolo spazioplano che garantiva un rientro pilotato su una qualsiasi pista aeroportuale. Anche la Boeing prevedeva il rientro a terra della navicella “Starliner”, eliminando così l’imprevedibilità delle condizioni del mare, e la presenza di una costosa squadra di recupero, e considerando le capacità manageriali e l’esperienza, che superava di gran lunga quelle delle due concorrenti, alla NASA tutti erano convinti che la Boeing sarebbe stata la migliore.

Ma le navi traghetto richieste erano due, pertanto, alla fine della selezione, nel 2014, Boeing e SpaceX si aggiudicarono i contratti CCtCap (Commercial Crew Transportation Capability) per il trasporto da e verso la ISS con le loro astronavi Starliner e Crew Dragon aggiungendo ai finanziamenti già ricevuti altri $4.2 miliardi la Boeing e $2,6 miliardi la SpaceX arrivando alla considerevole somma totale di $4.82 miliardi per la prima e di $3,144 per la seconda. Ciò nonostante, i finanziamenti a prezzo bloccato, garantivano risparmi significativi per la NASA, rispetto ai tradizionali contratti cost-plus1 dei precedenti programmi spaziali.

I contratti dei finalisti, oltre a coprire la realizzazione finale delle astronavi, con data finale di “consegna” nel 2017, richiedevano a ciascuna azienda di effettuare due voli di prova verso la ISS, uno senza equipaggio e uno con equipaggio, per verificare il veicolo spaziale e il sistema di lancio integrati, oltre a tutti i sistemi operativi.

La complessità e le innovazioni inserite nelle due nuovi astronavi però impedì ad entrambi i costruttori di rispettare al data di consegna finale. Obiettivo che la SpaceX raggiunse tre anni dopo, consegnando la Crew Dragon operativa nel 2020, mentre la Boeing, nonostante la differenza di $1,676 miliardi a suo favore ha incontrato innumerevoli e imbarazzanti difficoltà e ritardi.

Fino al 2019, SpaceX e Boeing sviluppavano i loro veicoli spaziali a un ritmo simile. Poi, nel dicembre dello stesso anno, Starliner ha dovuto affrontare una grave battuta d'arresto, quando il test di volo senza equipaggio è fallito a causa di un errore critico del software. Guasto che ha richiesto l'esecuzione di un secondo volo senza equipaggio nel maggio 2022, causando un nuovo ritardo al programma. Problemi alle valvole dei motori, all’installazione di materiali infiammabili non ammessi e al corretto dispiegamento dei paracadute, ne hanno poi ulteriormente rimandato il test finale di volo con equipaggio al 5 giugno 2024, sette anni dopo la data di consegna contrattuale.

Una missione che, seppur partita nel migliore dei modi, è stata viziata ancora una volta da problemi, ritenuti così gravi da indurre la NASA a trattenere per sicurezza a bordo della ISS, gli astronauti collaudatori Suni Williams e Butch Wilmore, facendo rientrare la Starliner in modo automatico. Ritorno che si è svolto nel migliore dei modi, tanto che l’Agenzia ha deciso di dichiarare il volo positivo, e l’astronave “idonea al trasporto di astronauti”, naturalmente dopo che si saranno risolti i problemi ai motori.

Con una perdita per la Boeing arrivata a $1,8 miliardi, a cui andranno sommati i $220 milioni dovuti al rinvio della prima missione con equipaggio, rimandata da febbraio 2025 a fine anno, l'amministratore delegato (uscente) Dave Calhoun, ha affermato che l'azienda rimane ancora impegnata nel Programma, anche se non esiste un piano definitivo per il veicolo spaziale, una volta assolto l'obbligo contrattuale con la NASA di sei voli. Una dichiarazione che rafforza l’ipotesi che la Boeing stia pensando di uscire, e quindi di vendere la Divisione “voli umani nello spazio”.

Quanto sta accadendo alla Boeing, mostra chiaramente i rischi finanziari che si corrono quando si presentano imprevisti oltre al consentito nella progettazione di hardware spaziale innovativo. Perdite economiche che neppure una grande impresa come La Boeing, una multinazionale che progetta, produce e vende aeroplani, razzi, satelliti e missili in tutto il mondo, può assorbire, senza contare il danno all’immagine.

Se Boeing è in passivo, non si può dire lo stesso per SpaceX. Grazie all’affidabilità raggiunta dalla Crew Dragon, e dai lanciatori Falcon, ora la può noleggiare a privati e industrie, oltre a farsi pagare $88 milioni a passeggero dalla NASA. Una cifra ragionevole per l’Agenzia, se consideriamo che l’astronave Orion, sebbene più grande di Dragon e Starliner e classificata per lo spazio profondo, è finora costata alla NASA $23 miliardi (2023), e solo per lo sviluppo del progetto.

Se la selezione del “servizio taxi” per l’orbita bassa si può dire conclusa, importanti novità arriveranno dal progetto della Sierra Nevada, terza partecipante all’ultima sessione del 2014 grazie allo spazioplano Dream Chaser. Un’alternativa alle “capsule”, che aveva interessato l’agenzia spaziale americana fin dal 1990, quando iniziò lo studio teorico per un veicolo alternativo allo Space Shuttle, in grado di trasportare un equipaggio di otto/dieci astronauti alla Stazione Internazionale, allora in fase di costruzione.

Denominato HL-20, derivava dal suo predecessore sperimentale HL-10, ed era caratterizzato da una fusoliera portante dotata di ali, un piccolo timone e controlli di manovra a razzo e aerodinamici, e destinato a essere lanciato verticalmente per poi rientrare con un atterraggio orizzontale. I suoi obiettivi erano chiari: ottenere bassi costi operativi, una maggiore sicurezza di volo e la possibilità di atterrare su piste convenzionali. Tutti vantaggi che sono ora raccolti dalla Dream Chaser, il cui lancio di prova è previsto in primavera.

Originariamente concepito come veicolo pilotato nel 2004 dalla SpaceDev, una società che è stata successivamente acquisita dalla Sierra Nevada Corporation (SNC) nel 2008, questo mini-shuttle è stato proposto alla NASA nel corso della qualificazione CCDev1, superando positivamente tutte le fasi successive fino al round finale del 2014, dove non fu scelta solo perché presentava tempi di realizzazione molto più lunghi di Boeing e SpaceX.

La società però non si è rassegnata alla sua eliminazione, decidendo di portare avanti a proprie spese il progetto, per proporlo nuovamente alla NASA come nave cargo a dicembre 2014, nell’ambito della gara per la realizzazione di un nuovo trasporto per l’invio di rifornimenti e materiali alla ISS, anche in sostituzione del veicolo automatizzato dell'Agenzia Spaziale Europea ATV Jules Verne, che dal suo debutto del 2008, avrebbe poi concluso la sua attività nel 2015 dopo la quinta e ultima missione prevista.

Nel gennaio 2016 la NASA ha quindi annunciato che Dream Chaser si era aggiudicato il Commercial Re-supply Services 2 (CRS-2), contratto che impegna la Sierra Space2, a condurre un minimo di sei missioni di rifornimento per la ISS, entrando a far parte della flotta cargo che comprende SpaceX e Northrop Grumman Innovation Systems.

Naturalmente il futuro è ancora tutto da “disegnare”, ma con la recente elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, e il coinvolgimento di Elon Musk nel nuovo dipartimento che avrà il compito di tagliare spese e burocrazia, possiamo essere certi che la NASA andrà più spedita nella corsa alla Luna, sempre se il Congresso approverà i fondi necessari ad arrivare prima dei cinesi.

Note

1 Il «cost plus contract» è un contratto in cui all'appaltatore vengono rimborsati i costi effettivi sostenuti per l'esecuzione dei lavori, oltre un fee aggiuntivo. Un contratto su base cost plus viene utilizzato in particolare quando la natura o le caratteristiche dell'opera da eseguire non possono essere adeguatamente definite all'inizio, quando i rischi associati ai lavori sono elevati o quando occorre assicurare tempi rapidi di realizzazione.

2 Nell'aprile 2021 il progetto è stato rilevato dalla Sierra Space Corporation - SSC.