La valutazione di qualità è sempre più al centro dell’attenzione in Medicina Generale, sia per migliorare la pratica professionale, sia per altri motivi, ad esempio favorire lo sviluppo di una cultura di accountability, basata su modalità assistenziali verificabili e rendicontabili, in funzione del raggiungimento di obiettivi di salute prefissati. La valutazione della pratica è inoltre utile come stimolo per progetti di ricerca, indispensabili per una disciplina culturalmente autonoma che deve produrre conoscenza in risposta a domande derivanti dalla prassi quotidiana. È efficace come strumento di formazione, continua e specifica.
L’esigenza di valutare il livello di qualità professionale è nata soprattutto dall’osservazione della variabilità delle pratiche, fenomeno in realtà non spiegabile in modo esaustivo da diversità di ordine clinico od organizzativo, ma principalmente da analisi in grado di integrare componenti quantitative e qualitative e dimensioni oggettive e soggettive1. In particolare la variabilità prescrittiva, spesso utilizzata come paradigma di comportamento inappropriato, non deriva semplicemente da ignoranza o errore ma è in buona parte espressione delle caratteristiche della Medicina Generale, disciplina caratterizzata da un setting turbolento e complesso.
La pratica clinica è infatti distante da quella degli studi sperimentali, tanto che si parla di medicine-based evidence come prerequisito per una evidence-based medicine. In Medicina Generale si passa dalla medicina del possibile, della letteratura, alla medicina delle scelte condivise, si modula la conoscenza teorica alla pratica , tenendo conto dei diversi valori in gioco, individuali e collettivi2.
Nei grandi trial, ad esempio, le malattie sono codificate, mentre in Medicina Generale spesso non si riesce a porre una diagnosi definita. Ciò non solo quando la patologia responsabile della sintomatologia viene osservata in una fase troppo precoce della sua storia naturale, ma anche nel caso in cui la malattia si stia sviluppando in una forma imprevedibile. Spesso è necessaria una ridefinizione del concetto di malattia e un ribaltamento dei presupposti della terapia, che non raramente inizia quando la diagnosi non è stata ancora posta. Come teorizzato da F. Olesen, la stessa diagnostica tradizionale non è sufficiente, occorre una valutazione a quattro dimensioni: biomedica, contestuale, psicologica, socio-relazionale3.
Il significato della diagnosi si colloca non solo nella storia biologica delle persone ma anche in quella biografica. Il processo diagnostico non è soltanto un’operazione scientifica, ma anche un evento negoziale tra un professionista, che ha interesse e obbligo per la diagnosi, e una persona interessata soprattutto alla prognosi e alla propria adeguatezza a vivere pienamente la vita. Come scrivono S. Bernabè, F. Benincasa e G. Danti:
La diagnosi è quindi il risultato di un evento sociale rappresentato dalla relazione negoziale tra il curante e la persona che lo consulta, avente lo scopo di ricongiungere, nella ricostruzione mediante narrazione di una storia biologica condivisa, la visione delle componenti oggettive (la patologia, conosciuta dal medico per competenza disciplinare) e soggettive (l’infermità percepita), per concordare la presenza o meno di una malattia e definire strategie diagnostiche e terapeutiche condivise4.
La diagnosi ha lo scopo di rendere un momento particolare della storia del paziente coerente al suo sapere, dunque non in maniera astratta e atemporale ma, come affermato da G. Montagna, “in flagranza di vita vissuta”. Nel confronto tra un professionista, portatore di conoscenze scientifiche, e un paziente, che conosce se stesso, viene prodotta una “nuova” conoscenza, in assenza di una verità a priori, o meglio in presenza di “verità” scientifiche, ma insufficienti per il malato che non percepisce la malattia a livello astratto ma fisico, come interazione corpo-mente.
La consultazione si fa strumento di coinvolgimento, condivisione, mezzo per restituire al paziente la reinterpretazione dei problemi e disagi offerti, talvolta per riorientare le sue scelte, quando inadeguate sul piano scientifico. La Medicina Generale è infatti ambito in cui si esprime in maniera forte il potere negoziale del paziente e ogni decisione viene negoziata e resa effettiva solo se condivisa. Tale condivisione è conditio sine qua non, obiettivo clinico oltre che obbligo giuridico, concreta strategia professionale per il raggiungimento di un fine che, per essere realmente perseguibile, deve essere condiviso. Questo processo assomiglia a “fare una diagnosi” ma non è la stessa cosa, perché il paziente contribuisce a definire il problema e non viene solo definito passivamente in termini nosografici.
Gli indicatori clinici: necessari ma non sufficienti
Gli indicatori, ad esempio la registrazione della pressione arteriosa o la percentuale di paziente che raggiungono i target di emoglobina glicata nei diabetici, non sono la qualità: la indicano, per definizione, in quanto variabili in grado di valutare efficacemente i livelli di performance raggiunti, ma, essendo predefiniti, possono perdere la funzione di testimoni a posteriori della qualità realizzata, trasformandosi negli unici obiettivi da perseguire. Il legame tra indicatori e qualità è infatti bidirezionale: gli indicatori permettono di misurarla ma indicano anche la tipologia di qualità che si vuole raggiungere, cioè i valori di riferimento in quell’ambito5.
Gli indicatori clinici derivano da linee guida e trial controllati e randomizzati, condotti in contesti specialistici, su popolazioni selezionate, ad esempio per quanto riguarda età e comorbilità, da medici selezionati. La conoscenza basata su tali studi viene costruita mediante semplificazioni, “sterilizzando” le variabili individuali e contestuali allo scopo di bilanciarle per ottenerne una influenza media. I “rumori di fondo” vengono limitati, mentre la pratica clinica si applica su una realtà complessa, fuzzy, nella quale lo sfondo è un elemento fondamentale. Nel prendere decisioni di natura terapeutica, il medico di Medicina Generale deve infatti prestare attenzione ai singoli pazienti, si deve basare anche su fattori non clinici, confrontarsi con le numerose variabili individuali che possono condizionare le scelte terapeutiche, ad esempio la percezione del desiderio talvolta non dichiarato ma implicito del paziente di assumere farmaci.
Si tratta di passare dall’efficacia teorica all’effettività, dai dati oggettivi, preliminari e probabili, ai giudizi soggettivi, condivisi con l’assistito. La cura, “ideale” secondo i dati di letteratura, deve essere giudicata fattibile, le prove pesate su una diversa bilancia, con una taratura differente. La trasferibilità di un risultato alla pratica quotidiana deve implicare un giudizio di valore: il sapere “cosa” fare. La dimostrazione di efficacia di un determinato intervento non determina automaticamente la decisione di utilizzarlo in qualunque contesto. Non implica che esso sia il migliore nel caso specifico, cioè che sia l’intervento giusto al momento giusto, per la persona giusta, o che intervenire, in un caso specifico, sia meglio di non fare nulla, né se il trattamento teoricamente indicato è riconosciuto tale dal paziente6.
La trasferibilità della conoscenza prodotta per mezzo dei trial alla realtà della pratica quotidiana è per questo spesso difficilmente realizzabile7,8. Il mancato raggiungimento degli standard può così determinare l’attribuzione di giudizi negativi sui medici, quando può in realtà essere causato da variabilità contestuali o particolare composizione della popolazione assistita (case-mix).
Teoricamente i migliori indicatori di qualità sarebbero quelli riguardanti gli esiti clinici, tuttavia in Medicina Generale sono relativamente rari da osservare, distanti nel tempo, influenzati da molte variabili, talvolta indipendenti dalle cure, pertanto inadatti a monitorare e migliorare la qualità delle cure. Per questo sono generalmente utilizzati gli indicatori di processo e di performance che peraltro, pur indispensabili per oggettivare la pratica e favorire l’autovalutazione e la responsabilizzazione dei medici, non esauriscono la “clinica” della Medicina Generale, il cui sistema valoriale determina una complessità assistenziale non riducibile in items misurabili. Uno dei rischi insiti nella scelta di indicatori clinici è ad esempio quello di frammentare l’assistenza, di valutare soltanto aspetti facilmente misurabili, omologati alla cultura specialistica.
La Medicina Generale si caratterizza per l’integrazione tra il misurabile e ciò che non lo è, identifica e persegue altri obiettivi assistenziali oltre a quelli tradizionalmente adottati in ambito sanitario, valorizza componenti specifiche del suo statuto epistemologico quali la consultazione, intesa come processo relazionale, anche (soprattutto) quando si conclude senza prescrizioni.
Il “non fatto”, così come i “non eventi”, fondamento della prevenzione, sono infatti tra gli elementi che meglio definiscono le qualità della Medicina Generale. Sono aspetti scarsamente oggettivabili ma non per questo non valutabili e descrivibili, pena il rischio di negare la consistenza di molte altre caratteristiche specifiche della Medicina di famiglia: l’orientamento alla qualità di vita del paziente, l’autonomia, il rapporto di fiducia, l’integrazione con altre figure professionali, il sapiente utilizzo del tempo. Peculiare a questo proposito l’impiego di strategie di lunga durata, a volte al prezzo di un parziale conflitto con gli stessi risultati clinici, ad esempio nella rinuncia a pratiche che, appropriate in termini biomedici, potrebbero compromettere la relazione sul lungo periodo con certe tipologie di pazienti.
Condividere l’impostazione di una dieta con un diabetico, insegnare l’automisurazione agli ipertesi, favorire l’autogestione, la capacità di coping dei malati cronici, il controllo sulla propria vita, informare in maniera obiettiva le persone sui limiti e i rischi degli screening, favorire scelte qualificate in quanto autonome e responsabili sono interventi del Medico di Medicina Generale in grado di realizzare una qualità assistenziale che, pur sostanzialmente immateriale, può essere descritta e valutata, ad esempio mediante strumenti utilizzati e validati in diversi studi9,10.
Molti lavori suggeriscono inoltre che una minore capacità del paziente di occuparsi della propria salute si traduce in un utilizzo inappropriato dei servizi sanitari e in peggiori esiti. L’orientamento al paziente, tipico della Medicina Generale, può dunque ottenere risultati positivi anche in termini di outcome clinici.
Conclusioni
Nell’ambito della Medicina Generale la qualità delle cure non deve essere valutata in astratto ma concretamente orientata al paziente e ai suoi bisogni, per soddisfare le sue esigenze e aspettative. Concetto multidimensionale, soggettivo, a volte ineffabile, in genere difficilmente misurabile, è più utile declinarla in termini di responsabilità, fiducia, continuità, competenza. Affermava Edo Parma:
La qualità … deve essere uno stile, un metodo di lavoro, un atteggiamento culturale: non va raggiunta, ma va praticata.
La si deve ricercare costruendo rapporti tra la storia dei soggetti e gli obiettivi che il medico ritiene utile perseguire nell’interesse del paziente. Una costruzione che deve passare, inevitabilmente, attraverso la condivisione di valori, senso, responsabilità, allo scopo di perseguire obiettivi di salute anche clinici, evidence-based, testimoni indiretti della qualità dei percorsi sottostanti11. Il processo di coinvolgimento del paziente, nelle modalità con cui vengono perseguiti gli obiettivi, è un determinante della qualità in Medicina Generale. Gli stessi indicatori clinici possono essere perseguiti solo se si realizza una condivisione della loro importanza con il paziente.
Le modalità di condivisione si collocano in un rapporto di fiducia che si costruisce nel tempo e si basano su attività difficili da oggettivare ma in grado di “indicare” un alto livello di professionalità e di testimoniare indirettamente la qualità delle cure mediante l’integrazione tra performance cliniche e competenze specifiche della Medicina Generale. Accettare la logica della valutazione è necessario e auspicabile, per modificare, quando necessario, la propria pratica professionale, naturalmente con la curiosità e le cautele che questo richiede, ad esempio accettando di mettersi nella logica della sperimentazione, inclusa la valutazione dei possibili effetti avversi.
Note
1 Parma E., La variabilità prescrittiva in medicina generale. Basi razionali terapeutiche, 1995; 25: 1-4.
2 Collecchia G., Dalla medicina del possibile alla medicina delle scelte condivise. Tempo medico cuore 2005; 1: 14.
3 Olesen F.. A framework for clinical general practice and for research and teaching in the discipline. Family Practice 2003; 20: 318–323.
4 Bernabè S, Benincasa F, Danti G., Il processo diagnostico. In: Caimi V, Tombesi M., Medicina generale. Torino: UTET, 2003.
5 Tombesi M., Lo scenario della qualità, gli indicatori e le trappole. Qualità in Medicina Generale: indicatori, scenari, trappole. XVII Congresso CSeRMEG. Costermano (VR) 22-23 ottobre 2004.
6 Greenhalgh T., Is my practice evidence-based? BMJ 1996; 313:957-958.
7 Milano M, Collecchia G., Trasferibilità della letteratura alla medicina generale: una griglia di valutazione. Ricerca & Pratica 2002; 18: 211-216.
8 Collecchia G, Milano M., Trasferibilità della letteratura alla medicina generale *(II parte). Ricerca & Pratica 2003; 19: 142-150.
9 Howie JGR, Heaney DJ, Maxwell M, et al., *Quality at general practice consultations: cross sectional survey. BMJ 1999; 319:738–43.
10 Rosengren A. et al., Association of psychosocial risk factors with risk of acute myocardial infarction in 11.119 cases and 13.648 controls from 52 countries (the Interheart study): case-control study. Lancet 2004; 364: 953-962.
11 Parma E, Caimi V., Medicina delle prove di efficacia e medicina generale, in Liberati A. (a cura di): “La Medicina delle prove di efficacia”. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 1997.