Piccole, piccolissime, microscopiche, invisibili ad occhio nudo a volte anche con strumenti sofisticati. Sono le microplastiche derivate dal decadimento dei materiali che per decenni hanno invaso il nostro habitat divenendo quasi ineliminabili per il vivere del genere umano. Una minaccia all’ambiente, una realtà con cui fare i conti ogni giorno e per eliminare la quale occorreranno decenni, forse più, utilizzando sempre di più ogni strumento capace di combattere, nel vero senso della parola, questa invasione.

A questa situazione, certo di grande impatto e pericolo (si pensi alle isole plastiche che galleggiano nei nostri oceani e mari), si aggiunge un ulteriore rischio cui occorre fare fronte. Le microplastiche così minuscole e così insidiose sembrano costituire un habitat elettivo per i batteri di ogni specie e genere esistenti. Con il non gradevole risultato di divenire vettori infettivi praticamente incontrollabili data la loro immanenza nell’ambiente.

Il pericolo è stato accertato di recente sulla base delle risultanze di una ricerca basata su campionamenti in mare aperto e in alcuni siti costieri svolti dall’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr in collaborazione con l'Ecole Polytechnique di Losanna e dell’Università del Texas. Lo studio, pubblicato sulla rivista Marine Pollution Bullettin, ha rivelato che i frammenti di plastica offrono un substrato per la crescita di comunità batteriche anche patogene. Di qui il valore e l’alert in materia che si aggiunge ai tanti allarmi che il nostro ecosistema ci lancia.

I dati in questione si riferiscono ad un controllo sull’area del Mar Tirreno, bacino del Mediterraneo, ma verosimilmente possono essere analizzati guardando ad ogni bacino sul quale incombano attività produttive, estrattive, di smaltimento e così via. La presenza di microplastiche nel Tirreno, dunque, favorisce lo spread di batteri, alcuni dei quali pericolosi per gli esseri umani e gli animali. La ricerca è stata condotta sia in mare aperto – nelle acque di Toscana e Corsica - sia nei siti costieri di Forte dei Marmi (Lucca) e delle Cinque Terre (La Spezia).

I dati raccolti non mentono: le particelle di plastica ‒ osserva la ricerca ‒ offrono un substrato aggiuntivo ideale per la crescita delle comunità che già proliferano nella cosiddetta marine snow (neve marina) presente in acqua, cioè l’insieme di particelle naturali composto da alghe, piante acquatiche, zooplancton – come residui di pesci e altri animali ‒ e fitoplancton. Una scoperta che potremmo dire rende comprensibile scientificamente quello che a volte guardando i nostri mari con le plastiche in sospensione si trasforma in una sorta di domanda inespressa ma chiara: cosa succederà andando avanti così?

“Nel nostro studio abbiamo prima quantificato la presenza di microplastiche e di particelle organiche di origine naturale; quindi, abbiamo analizzato le comunità batteriche presenti su entrambi i substrati e la presenza di resistenze ad antibiotici e metalli pesanti”, sottolinea Gianluca Corno dell’Istituto di ricerca sulle acque (Cnr-Irsa).

“In particolare, abbiamo rilevato che la maggior parte delle particelle di microplastica non seleziona ‘nuovi’ batteri - non si generano cioè, dal punto di vista microbiologico, nuovi inquinanti - ma offre un supporto addizionale su cui proliferano comunità batteriche molto simili a quelle presenti sulle particelle naturali. Tali comunità, che rivestono le particelle sotto forma di sottilissimi biofilm, sono molto diverse da quelle che vivono in acqua, e comprendono anche specie patogene per gli esseri umani o per gli animali, come Vibrio, Alteromonas, Pseudolateromonas. Ad oggi, il rischio batteriologico legato a infezioni provocate da batteri patogeni che crescono in acqua di mare è relativamente basso, soprattutto in mari estremamente poveri di nutrienti ed in acque fredde, che limitano la crescita di queste specie batteriche. La situazione però sta rapidamente cambiando”.

Un vero e proprio allarme, ancorché mitigato dalle altre considerazioni peraltro inficiate dai mutamenti in atto sempre più incidenti sull’ambiente sia terrestre sia marino. Il rischio immanente è il progressivo riscaldamento delle acque, un agente diretto sul fenomeno che corre il pericolo ampliarsi.

Si osserva nella ricerca: “le acque sempre più calde dei nostri mari daranno a questi batteri un grande vantaggio ecologico, perché li renderanno più competitivi rispetto ai batteri marini non-patogeni, come si è già visto con il forte incremento di infezioni causate da specie patogene, tra cui Vibrio, nelle acque costiere dell’America Settentrionale. Tra essi, infatti, rientrano anche specie patogene per gli esseri umani che, oltre a rappresentare un pericolo per persone e animali, possono compromettere attività come la balneazione e in generale l’uso dell’acqua. Se a questo fenomeno aggiungiamo la già massiva presenza di microplastiche, substrati ideali che aumentano la disponibilità di microhabitat adatti a tali batteri, la loro proliferazione sarà ulteriormente favorita”.

Altro dato interessante e problematico è che lo studio non ha evidenziato differenze significative tra i campionamenti condotti in mare aperto e quelli condotti sulle coste. Un elemento questo che si spiega con il fatto che il Tirreno e il Mediterraneo in generale, subiscono “un impatto antropogenico significativo da tempo, per cui la quantità di plastica e microplastica presente, e la relativa età media delle particelle, è molto alta, riducendo le differenze tra siti di recente contaminazione e quelli invece meno esposti alle stesse. A questo contribuiscono anche le correnti superficiali che, nel Tirreno, tendono a mescolare rapidamente le acque”.

Dal punto di vista metodologico i risultati sono stati ottenuti nell’ambito del progetto di ricerca AENEAS, finanziato da AXA Foundation, che ha compreso una serie di campionamenti in barca a vela nel settembre 2019. I dati sono stati oggetto di elaborazione successivamente, date le restrizioni e la limitata disponibilità dei laboratori durante il periodo della pandemia.

Quindi potremmo dire che tra i dati negativi della pandemia, si pensi alle vittime, ai problemi sanitari, esistenziali, alle mille difficoltà operative a livello mondiale, ci sia anche quello di aver ritardato e certamente aggravato un fenomeno alla cui puntuale analisi si arriva con due anni di ritardo che in termini scientifici sono come si suol dire un’eternità!