Su questa funzione sono stati scritti migliaia di articoli e centinaia di libri, ma tuttora l’intelligenza sembra essere da un lato sopravvalutata e dall’altro sottovalutata, pur rimanendo una funzione psicologica sulla quale ci sarebbe molto da discutere. Perché esistono molti problemi sull’intelligenza, quando per altre funzioni psicologiche non ne esistono o comunque sono decisamente meno?
Tutto è legato alla sua storia, quindi al fatto che da quando si è cominciato a parlarne scientificamente, si è iniziato a pensare che l’intelligenza fosse risolutiva, per esempio, per trarre delle buone conclusioni, per risolvere problemi importanti, per inventare qualcosa di nuovo e di utile, per fare operazioni mentali complesse eccetera. Sull’intelligenza esistono molte opinioni, espresse anche dagli psicologi, che hanno affrontato il suo studio soprattutto come capacità unica e omogenea e non come una facoltà multipla.
È così che uno dei primi studiosi dell’intelligenza, Alfred Binet (un italiano di nome Alfredo Binetti, nato nel 1857 a Nizza quando questa città era ancora italiana), all’inizio del secolo scorso, pensò di fare con alcuni bambini delle prove rivolte a stabilire la loro età mentale. Poco più tardi uno psicologo tedesco, William Stern, pensò di mettere in relazione l’età mentale del bambino con la sua età cronologica. Dividendo la prima età con la seconda e moltiplicando il risultato per 100, Stern calcolò per primo il quoziente intellettivo di un bambino, il cosiddetto QI.
Per esempio, se un bambino di 10 anni, ha una età mentale di 10 anni il suo quoziente intellettivo risulterebbe pari a 100, il che è un discreto quoziente intellettivo. Se poi il bambino avesse un’età mentale superiore alla sua età cronologica, il QI ovviamente aumenterebbe, fino ad arrivare a 140 o ancora di più. In quest’ultimo caso ci troveremmo di fronte a un genietto, almeno secondo questi parametri. Si capì però subito che la questione era stata troppo semplificata, che c’era qualcosa che non andava. Infatti l’intelligenza non è una funzione unitaria, ma si tratta di una capacità articolata.
Per fare un esempio, se a un bambino di dieci anni che vive nella foresta amazzonica chiedessimo cosa preferisce leggere tra i quotidiani o le riviste in circolazione, non avrebbe nessun senso: in Amazzonia non ci sono edicole, otterremmo un risultato scontato e, quello che è più importante, questo risultato non mostrerebbe che il bambino dell’Amazzonia è meno intelligente di un suo coetaneo che vive per esempio a Milano. Si rivelerebbe, nel caso del bambino milanese, una intelligenza soprattutto verbale, scolastica ed educativa non riscontrabile nel bambino di dieci anni dell’Amazzonia, che non ha l’opportunità di andare a scuola, né ha genitori istruiti e magari laureati.
Ma, se al bambino di Milano chiedessimo di accendere un fuoco in Amazzonia per cuocere del cibo per sopravvivere, senza fiammiferi o un accendino a disposizione, saprebbe farlo? Certamente no, mentre il bambino dell’Amazzonia lo farebbe senza problemi per sfregamento con un bastoncino e della paglia secca. Allora, chi è più intelligente, il bambino amazzone o quello milanese?
Di fronte a questi limiti, altri psicologi pensarono che dovessero essere valutati altri fattori, soprattutto che si sarebbe dovuto parlare di diversi tipi di intelligenza. In tal caso, si presero in considerazione altri tipi di intelligenza: pratico-operativa, del ragionamento astratto, della fluidità di pensiero, logico-matematica, musicale, intrapersonale, interpersonale e anche esistenziale. Quindi si cambiò rotta e subentrò una nuova teoria, la cosiddetta teoria dell’intelligenza multipla, secondo la quale l’intelligenza era costituita da abilità distintive ordinate non più in modo lineare, ma sui tre assi dello spazio.
In un primo asse sono state collocate, per esempio, le operazioni per l’immagazzinamento delle informazioni in memoria e successivamente per la produzione di nuove informazioni a partire da quelle date e altre abilità ancora. Nel secondo asse sono state collocate, per esempio, le abilità figurative, comportamentali e simboliche. Nel terzo asse sono state collocate quelle dei prodotti, come, per esempio le forme assunte dalle informazioni una volta elaborate partendo da ogni singola unità in relazione ai rapporti tra le varie altre unità, oltre a implicazioni ed estrapolazioni di vario genere.
Questa struttura dell’intelligenza fu elaborata per la prima volta dallo psicologo americano Jay Paul Guilford nel lontano 1967 ma, nonostante siano passati molti decenni, il suo modello multivariato è ancora valido, anche se è complesso dal momento che è estremamente difficile prendere in considerazione per ciascun individuo, tutte le abilità di cui dispone.
C’è un’altra questione non secondaria che riguarda l’intelligenza, ovvero se di essa possa far parte anche il pensiero creativo, quindi non solo le abilità di cui abbiamo parlato fino ad ora, ma, per esempio, anche il pensiero artistico, quello linguistico, letterario eccetera. Tra queste forme di pensiero creativo possiamo inserire il cosiddetto colpo di genio, qualcosa di improvvisato e spesso inaspettato, per esempio ciò che porta a una grande scoperta o a un’invenzione geniale?
Il punto è che numerosi ricercatori ritengono che queste ultime abilità, nelle loro fasi elaborative brevi e immediate, si realizzino principalmente nell’emisfero destro e che nel bambino possano però entrare in conflitto con l’emisfero sinistro soprattutto nel momento in cui il bambino comincia a parlare, perché, appunto, è in questo emisfero che avviene il controllo dell’articolazione e della comprensione del linguaggio.
Ora, non voglio approfondire questo argomento che, tra l’altro non è di mia competenza, ma se così stanno le cose, allora l’intelligenza potrebbe essere collocata da qualche parte, in particolare in un’area corticale? Più in quella frontale che in quella parietale? Più in quella temporale che in quella occipitale? Sembrerebbe di no. L’intelligenza è una funzione multipla che va al di là del colpo di genio o di un singolo comportamento ritenuto intelligente.
In questo ha ragione Guildford quando parla di una dimensione tridimensionale dell’intelligenza. Il suo però rimane sempre un modello empirico, per quanto più completo e interessante di tutti gli altri fino ad ora elaborati e applicati. Questo però non risolve il problema di una collocazione specifica dell’intelligenza nel cervello, ammesso che questo problema possa esistere. L’intelligenza non è collocata e collocabile da nessuna parte perché fondamentalmente è una proprietà del nostro cervello, non è il cervello.
In alcuni casi, per esempio durante la risoluzione di un problema, si possono attivare alcune aree corticali piuttosto che altre e questo è vero ed è stato anche dimostrato, ma più di questo non è che si possa dire. C’è poi chi sa approfittare, più di altri, di alcune abilità o di una sola di esse e manifestare comportamenti al di fuori dell’ordinario, dimostrando il suo talento e la sua intelligenza, questo è vero, ma non è che si possa aggiungere molto altro.
In passato ho avuto l’occasione di incontrare un bambino con doti veramente straordinarie in molti campi data la sua età (in matematica, logica, creatività, ragionamento induttivo e nel gioco degli scacchi in cui sapeva destreggiarsi come un professionista). Desideravo ardentemente sapere quale fosse stata l’origine di queste sue qualità straordinarie, se fosse dipeso dal patrimonio genetico ereditato dai suoi genitori, dalla scuola che frequentava, dalle sue amicizie extrascolastiche, insomma da che cosa? Alla fine, non indagai su niente, non gli chiesi niente e il risultato però fu che il mio ottimismo, in quel periodo, salì al massimo.