Incontrare Massimo Gradini a Pitti Uomo, vestito di bianco sartoriale, cravatta gialla, fazzoletto da taschino un po’ appallottolato perché in ordine e fiammeggiante non renderebbe un buon servigio alla disinvoltura, scarpe Duilio rivisitate color panna e rosa antico, solleva la questione indefinibile della bellezza interiore sulla quale investighiamo almeno da quando Policleto, con le sue proporzioni di scultore dell’armonia, ci ha consegnato i canoni di quella esteriore. Non sappiamo poi se l’affare fosse ancora più remoto: magari anche Neanderthal, nelle sue caverne o similari si poneva il problema di essere bello dentro. Di fuori, per il nostro gusto, certo non era un granché, inoltre parecchio deficitario in fatto di stile.
Massimo Gradini è il più longevo indossatore e modello italiano, sfila dal 1979, sottratto ventiduenne alla discrezione della sua adolescenza e a un impiego in ufficio che gli opprimeva l’anima, si è trovato così a suo agio in passerella che ha in mente di sfilare fino a ottant’anni, anche perché ha già verificato con i successi ininterrotti che i capelli candidi non lo sciupano. Anzi, se la intendono con gli occhi verdi.
La bellezza interiore, allora. Può quasi tutto: riscatta un aspetto fisico infelice ed esalta quello smagliante fino a renderlo irresistibile. Però è piuttosto difficile da raccontare. Nel primo caso sembra di essere condiscendenti: che sgorbietto, ma lo spirito superlativo gli illumina il volto. Nel secondo un po’ retorici, specialmente se la bellezza dei tratti e dell’incedere è la protagonista di una vita.
Eppure in Massimo la sensibilità commuove, altro che retorica. Glielo riconoscono tutti: “Mi viene detto che trasmetto qualcosa in pedana. La serenità che provo, la disponibilità e il rispetto per il prossimo. Sono in armonia con quello che mi circonda e vedo che c’è un ritorno. Se posso dare un consiglio a un giovane collega, per esempio, lo faccio, ma senza illudere. Mentre io, agli inizi, ho trovato un muro invisibile: nessuno ti aiutava, nessuno ti dava un’indicazione.”.
I suoi genitori, umbra la madre, di origini campane il padre, abitavano a Roma sognando per il ragazzo l’intramontabile “posto fisso” così Massimo finì dietro una scrivania, (forse con l’inconscio sperava di saltarci su per un improvvisato défilé), annoiandosi terribilmente. Destino architettò che il suo capo ufficio, consulente dell’Accademia dei sarti, lo invitasse a una sfilata all’Hilton. Di quello spettacolo Massimo ricorda una sala immensa, piena di luce, piena di gente, gli indossatori in passerella: “Ero ammirato, sognante”. “Potresti farlo anche tu, vediamo se capita l’occasione” suggerì il boss. L’occasione capitò.
“Ho la fortuna di avere una misura standard e così… Una parte di me lo voleva, ma dovevo superare la timidezza. Era la storia di Cenerentola: quando sfilavo era come andare al ballo, poi tornavo in ufficio e mi sentivo in soffitta. Ho fatto l’impiegato ancora per otto anni anni, ma nel frattempo aumentavano i contatti, partecipavo a manifestazioni importanti. Un giorno, arrivato al limite della sopportazione e triste per una storia d’amore finita, mia madre mi disse: ‘Figlio mio, se questo lavoro non ti piace, lascialo’. Sono stato abbastanza incosciente, e l’ho lasciato”.
O forse molto cosciente nel rifiutare una vita non somigliante ai propri desideri. Poi una serie di circostanze giuste: “Il regista Sandro Massimini mi ha portato in tutto il mondo, sono stato venti giorni in Giappone. Ogni tre giorni cambiavamo città. Mi sentivo sulla luna. Negli anni Novanta c’erano tante sfilate, ero sempre in giro per l’Italia. Pieno di gratificazioni. Ammetto che a trent’anni ho inseguito la fama, ero molto ambizioso, mai estremo, però. Volevo andare a Milano, ma mi sentivo chiuso verso la città. Poi mi sono aperto e ci sono stato dieci anni: la cosa giusta al momento giusto. Avevo trentacinque anni. Lavoravo tutti i giorni. Ora abito a Roma, dove tengo anche corsi di portamento, Milano mi appartiene poco. La qualità della vita per me conta”.
Fra le emozioni memorabili: la discesa di Trinità dei Monti. “Eravamo solo dieci indossatori scelti in tutta Italia. E’ stato il riconoscimento della professionalità, come raggiungere la vetta dell’Everest. Con un gruppo di colleghi siamo anche amici, senza quella la rivalità, seppure espressa in maniera sottile, che ho osservato nelle donne. Una volta, a piazza Navona, l’anno precedente all’assassinio di Gianni Versace, partecipai a una manifestazione con le top model, ‘quelle’ top model: Naomi Campbell, Christy Turlington, Carla Bruni, Cindy Crawford, Claudia Schiffer. Ecco, ognuna faceva la primadonna”.
Massimo invece non si sente secondo a nessuno, senza voler essere il primo. Nel gruppetto delle superstar della seduzione a piazza Navona, c’era anche Monica Bellucci: parlarono un momento di Città di Castello, dove entrambi sono nati, ma della serata sfolgorante non ha ricordi particolari sul fronte emotivo: “Erano molto belle, ma non le più belle e, comunque, se non mi si tocca il cuore…”.
Il cuore si sciolse quando presentò a suo padre, Angelo Litrico, principe dei sarti, che onorò Gradini padre chiamandolo collega. Momenti di gloria per il sarto di Cassino che aveva tentato invano di avviare Massimo e fratelli al suo mestiere: “Da bambino ha provato a insegnarci, ci pagava pure, ma la passione non è scattata. Eppure, in qualche modo, il fato mi ha riportato in sartoria. Prima o poi vorrei andare a Cassino. Lo dico sempre, ma non l’ho ancora fatto mai”.
Dopo decenni alla moda, l’entusiasmo non sfuma: “Dietro un abito c’è un impegno enorme. Faccio il mio lavoro con il massimo della professionalità, a Parigi come a Velletri (s’intuisce che preferisce Parigi n.d.r.). È stimolante, sempre diverso, non mi annoia mai. Mi piace sfilare e, se il fotografo è bravo, anche essere fotografato. Quando è possibile scegliere i vestiti da portare, li scelgo, con una predilezione per il blu, ma chi mi veste sa che cosa mi sta bene. Al di là degli abiti, il fatto principale è che con questo lavoro faccio sapere chi sono”.
Chi è? Dopo le esperienze della vita Massimo lo sa di più, ha imparato a chiedere scusa per riparare a torti commessi anche tanto tempo prima, coltiva gli aspetti intangibili di sé. “Se esplori il dolore a 360° scopri le tue parti sconosciute. Facile dire: io mi conosco, ma solo con il dolore esplori ogni angolo di te ed io l’ho fatto”. Sente il richiamo della terra e della natura e appena può va in Umbria dove è nato. Sua figlia Alice, della quale è un padre affettuosissimo, ma non possessivo, gioca nella nazionale azzurra di beach volley e spera di partecipare alle Olimpiadi. Le imprese sportive della figlia sono avvincenti e lui ha giubilato quando la squadra della fanciulla ha vinto il titolo italiano. “Lo sport mi piace e tendo al vegetariano, no alla carne e ai formaggi per ragioni di salute. Sono un po’ una mosca bianca, a sessant’anni ancora in attività!”. Mosca bianca che di recente ha conquistato anche i cinesi. Al congresso mondiale della sartoria, poi, gli avranno scattato mille foto. E lui se la gode senza la minima vanteria, il suo Narciso è appagato e gli lascia lo spazio per essere Massimo.
È grato alla sua professione: “Mi ha dato l’opportunità di vedere tanto mondo, di trovarmi in posti che mai avrei potuto immaginare. Europa, Oriente, America. L’atmosfera del French Quarter di New Orleans mi ha conquistato: c’è una viuzza piccola, con un locale senza intonaco dove si dice che sia nato il jazz. Neri di più ottant’anni che suonano, sono rimasto affascinato. Negli Emirati Arabi ho sfilato sulla sabbia in un’ atmosfera ispirata ai tuareg. Stupendo”. Gli arabi lo ammirano quando indossa un abito sartoriale, ma se si cimentano loro il risultato lascia a desiderare.
Un commento sul Made in Italy? “La sartoria italiana per me è la migliore. Gli inglesi e i giapponesi sono abilissimi, ma non hanno la nostra fantasia. Gli accessori, per esempio, li scegliamo meglio e abbiamo più buon gusto. Parlo dell’uomo, di moda femminile non mi intendo, diciamo che la incrocio. Mi piace molto la donna in giacca e pantaloni su misura”.
Alla fine di ogni sfilata, con i suoi colleghi indossatori, salutano Carlo Uberti che non c’è più, The King per loro. Lo salutiamo anche noi.