La vita ci informa in ogni istante e forma le nostre maniere e le nostre attitudini: la guerra e i conflitti tra nazioni svolgono anch’essi un ruolo informativo ed influente sui modi del vivere quotidiano.

La crisi di coscienza che si manifesta negli atti di violenza, è l’emblema della fragilità dell’esistenza imposta dall’uomo, oltre gli schemi di natura ed interviene sui modi attutendo gli eccessi edonistici e ponendo in rilievo il pragmatismo e l’essenziale come medium espressivo del corpo.

In questi scenari ci si immerge nel processo alle intenzioni e ai valori che muovono queste azioni distruttive e si rimane scossi per le conseguenze di queste azioni prevaricatrici del senso di conservazione della vita. Inesorabile la guerra permane, a prescindere, nell’ottusa visione di chi la perpetua come ipotesi risolutiva dei problemi vissuti lontani dalla dialettica.

Diversi sono i filoni progettuali che si impaginano, sul campo dello stile, in momenti come questi. “Less is more”, ossia ridurre al minimo il decorativismo affrontando il presente con un’estetica riduzionista rivolta alla funzionalità dell’emergenza.

Esempio evidente in questo panorama è l’avvento del concetto di uniforme e divisa che tinteggia e conforma, della sua presenza, gli ambienti e la comunicazione, dalla “Trincea” al “Lavoro”, dal tempo libero alla presa di posizione politica, tra favore e sfavore.

La distruzione diviene l’atmosfera su cui riflettere attraverso le forme della moda, per le sue origini e per le sue conseguenze estetiche.

La sofferenza è il leitmotiv della drammaturgia dell’immagine di questi frangenti storici ma è anche soggetto da edulcorare nei messaggi dopati di finta speranza ed artificioso benessere di chi, lontano, la osserva. Mai come nella contemporaneità tutto concorre alla trasformazione e ridefinizione delle forme della moda grazie al concetto di simultaneità informativa, ma anche il passato ha avuto un suo ruolo principe nella costruzione del guardaroba educato dai conflitti.

Le uniformi hanno ispirato il concetto di virilità e lo hanno informato del ruolo che anche la donna si è conquistata nel XX secolo.

Esempio di questo movimento immersivo nel bellico è il trench-coat che ha la sua matrice ideativa nell’esercito.

Fu Thomas Burberry che si vide recapitare nel suo negozio, appena aperto a Basingstoke, vicino Londra, niente di meno che dalla Royal Army la commessa per la produzione di capi in gabardine destinati all’Esercito impegnato nella 2^ Guerra boera.

Burberry, mettendo frutto le scoperte di Macintosh e Goodyear su come rendere impermeabili i tessuti, ma con esiti perfettibili, ne aveva messo a punto un prototipo particolare, caratterizzato da una tessitura molto fitta, composto di fibre miste compatte e che, proprio grazie a questa trama, risultava essere anche impermeabile: la gabardine, appunto.

Nel 1879, Burberry brevetta questo tessuto che diverrà iconico e che passerà alla storia, nella sua trasformazione in capo di abbigliamento, come trench-coat, letteralmente, il cappotto da trincea. Questo è solo uno dei tanti esempi di quanto la guerra abbia inciso nella storia della moda.

Gabrielle Chanel utilizzò, per la collezione Biarritz del 1916, in pieno conflitto mondiale, una partita di jersey destinata all’esercito per la sua prima produzione di alta sartoria femminile che diede origine al concetto di minimalismo nella moda contemporanea e che decretò il suo primo grande successo commerciale.

Anche il Cardigan, impiegato da Mademoiselle come giacca femminile, ampia ed avvolgente, rubato al guardaroba maschile, ha origini belliche.

La Storia racconta che nel 1854, l’elegante e altezzoso generale James Thomas Brudenell, altresì noto come il VII Conte di Cardigan, si trovava alla carica della cavalleria leggera nella battaglia di Balaclava: l’esito militare per le truppe britanniche fu nefasto, ma il conflitto ebbe anche un risvolto positivo per cui il comandante è passato alla storia. E quella ragione sta proprio nel titolo. Ebbene sì, proprio da lui, nel contesto della stessa Guerra di Crimea che dette i natali anche al balaclava, prende il suo nome quel maglione morbido e abbottonato sul davanti, incarnazione dell’idea di comfort e capo essenziale che tutti hanno nell’armadio, in grado di trascendere generi, stili personali e generazioni.

In tutto ciò si inserisce il “Manifesto Futurista” sul concetto di “Vestito Antineutrale”, del 1914, redatto in tre edizioni di cui la seconda in italiano è quella di Giacomo Balla, che vede nelle posizioni marinettiane la guerra come sola igiene del mondo e nell’abito il senso di un dinamismo legato alle narrazioni più estreme di questo processo.

Nella storia recente è il conflitto nucleare a dare sfogo alla natura più rivoluzionaria e controversa della moda nipponica di Rei Kawakubo per la sua etichetta Comme des Garçons. Con essa Kawakubo genera quello che la stampa Occidentale definisce lo stile Hiroshima Chic.

La creativa, originaria di Tokyo, traccia il concetto di Destroy e processa il non finito come tema culturale, il vuoto rispetto al pieno ed al compiuto, la deformazione contro la conformazione in opposizione allo strapotere del fashion-system europeo e americano e ai processi colonizzatori dell’immagine.

Questi sono solo alcuni esempi di come il nostro modo di manifestarci e rappresentarci sia influenzato dalla guerra.

La moda è il grande caleidoscopio delle emozioni e l’abrasione generata dai conflitti ci informa nelle sembianze degli abiti e nella conseguente gestualità che quotidianamente ci rappresenta e racconta.