La peculiarità di Moby (il nome d’arte è in omaggio all’avo Herman Melville, il celebre autore di Moby Dick) è sempre stata quella di concepire l’elettronica in una dimensione quasi artigianale, in cui la sintesi del suono e gli aspetti ritmici appaiono totalmente allineati con l’anima della scrittura, la vera forza “generatrice” dei brani.
Le sperimentazioni sonore non sono quindi mai fini a se stesse, ma si muovono dentro un contesto espressivo preciso con il fine di enfatizzare il messaggio della composizione: non sono il punto di partenza, piuttosto quello di arrivo. È grazie a questi elementi che Play (1999) è divenuto il best seller della consacrazione, attirando pubblici estranei al genere, incantati dal “melting pot” di esperienze musicali (pop, blues, gospel, country ecc.) e dal particolare mondo sonoro che lo avvolgeva. Un approccio che fonde modernità e sensibilità classica, analogico e digitale e molti altri ambiti solo in apparenza in contrapposizione.
L’elettronica infatti, guardando pure all’esempio dei padri fondatori o del suo successivo utilizzo nel pop, messa al servizio della melodia e del testo ha un valore “poetico” inestimabile. Oggi, dopo due lavori “politici” e dall’indole punk licenziati sotto la sigla Moby & The Pacific Void Choir, l’artista torna a proprio nome con un album, registrato interamente in casa, che riporta le coordinate sulla cifra stilistica ed emozionale per la quale è maggiormente conosciuto. L’idea di base e il motore creativo di Everything Was Beautiful And Nothing Hurt (il titolo del disco è una frase tratta dal romanzo di Kurt Vonnegut Mattatoio N. 5) risiede nel “postulato” che dietro ogni errore ai danni del mondo (in senso sia ecologico che sociale) ci siamo noi come razza umana, un “comune denominatore” che non ha nemmeno l’attenuante della felicità per i suoi crimini perpetrati negli ultimi 100 anni, visto il dilagare della depressione e dell’autoisolamento fra le persone (giusto per citare due fra i mali più diffusi).
Non si addita quindi un colpevole ma ci si interroga su come abbiamo fatto a giungere fino a questo punto e sull’inesorabile conto alla rovescia che sembra essere stato innescato, rimettendo a noi la decisione di un eventuale cambiamento, sempre che non sia ormai troppo tardi. Nella bellezza altamente drammatica di ogni singolo pezzo, sembrerebbe però fare capolino anche il pensiero che una speranza ci sia ancora. Temi e titoli che alludono spesso allo sfruttamento degli animali (Moby è vegano dall’età di 16 anni – oggi ne ha 52 - e la causa per i diritti animali è in testa alla sua scala di valori), ma che possono essere ricondotti alla ricerca di un buonsenso e di un’empatia generali. Nulla comunque dovrebbe più esserci indifferente, non ce lo possiamo permettere.
La scaletta di canzoni, perché in fondo è la “forma” di riferimento principale, indicata già dall’apertura a dir poco perfetta di Mere Anarchy, è composta da atmosfere trip-hop dense, palpabili, attraversate da linee di canto dolenti (una malinconia à la Play, con contrappunti di tastiere, che è evidente in The Waste of Suns e The Tired and the Hurt), vocalizzi soul e metriche hip-hop (Like a Motherless Child e The Last of Goodbyes), ma anche da climi più dissipati (A Dark Cloud Is Coming) e talvolta acustici (The Ceremony of Innocence, citazione dalla poesia di W.B. Yeats The Second Coming, e Falling Rain and Light), da ballad venate di blues (Welcome to Hard Times), synth pop (The Sorrow Tree), da rap caldo e avvolgente (The Middle Is Gone, This Wild Darkness): in una parola Moby. Un album capolavoro che meriterebbe una nuova consacrazione.