“Ogni blocco di pietra ha una statua dentro di sé ed è compito dello scultore scoprirla”. Ecco quanto scriveva Michelangelo a proposito della scultura. Una frase di una semplicità apparente ma che contiene almeno un migliaio di pagine saggistiche. Saggistiche e anticipatorie, soprattutto, perché su questo “scoprire”, sul tirare fuori la forma dall’informe, sul togliere per rivelare, sull’assenza e il venir meno si dedicheranno filosofi e autori del Novecento.
Basti pensare ai bellissimi versi di Montale, quelli che aprono il suo capolavoro Ossi di seppia: “codesto solo oggi posso dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Il vuoto e la negazione si fanno messaggio, il silenzio diventa racconto. Tema ripreso a piene mani – passando dalla poesia al teatro – da Carmelo Bene, che della poetica dell’assenza e del sottrarre si fece alfiere (emblematico più che mai il titolo di un suo spettacolo, Un Amleto di meno), mostrando a tutti quello che Maurizio Grande definì “la grandiosità del vano”.
Ma ritorniamo a Michelangelo e le sue forme prigioniere nel marmo. Al di là del lavoro di sottrazione cui si accenna, c’è nella frase l’enunciazione sottintesa di quello che è forse il più grande talento che un artista possa mai avere, la visionarietà. La capacità d’immaginare è la scintilla che mette in moto il processo di creazione; vedere un qualcosa senza averlo davanti è allo stesso tempo il pregio e il metodo di chi plasma qualcosa dal nulla. Personalmente ritengo questo momento forse il più bello che si può incontrare in arte. L’opera finita è completa e rivelata ma come già ebbe modo di far notare Umberto Eco è “opera chiusa”, vale a dire un’opera che ha smesso di lanciare messaggi perché ne ha scelto uno e si è esaurita in quello.
L’opera conclusa non è più il blocco di marmo grezzo, la tela ancora bianca, le prove di uno spettacolo teatrale. L’opera conclusa è il meleto gravido di frutti, quella ancora aperta è il terreno fertile pronto ad accogliere qualsiasi seme: non è meleto, né vigna, né campo di grano ma potenzialmente tutte queste cose pur non essendo niente. È la dimostrazione più concreta del concetto aristotelico di potenza pura che nella sua “Fisica” rappresenta il big bang filosofico che dà inizio alla catena sequenziale del cosmo.
La tela bianca mi piace per questo: è un limbo felice pronto a diventare tutto. È i puntini sospensivi quando stiamo per dire qualcosa. Ma la sua magia non finisce lì. Ancora parecchio lontana dal poter essere una traccia percorsa e finita, la tela bianca continua a essere campo di idee anche quando il pittore ha iniziato a tracciare le prime linee del quadro. Quella che in gergo tecnico si chiama “bozza” e che, variando da pittore a pittore, può essere più o meno precisa. Mi piace incerta, liminale, fuggevole. Fatta di linee e tratteggi appena accennati, che per capirci qualcosa devi fissarla a lungo, ma che a volte proprio il fissarla a lungo rischia di farne perdere il senso e ciò che un secondo prima si era certi di intravedere ecco che un secondo dopo non c’è già più, scomparso tra i capricci visionari dell’artista. Una sensazione quasi simile a quella descritta da Dante nel suo unico tentativo di vedere materialmente Dio, del quale perde l’idea nel preciso istante in cui riesce a concepirne la grandezza “sì come rota ch’igualmente è mossa”, così come una ruota gira.
Il non finito ha un fascino tutto suo. È dotato di un’imprecisione quasi accademica, ha tanto da insegnare. Ma al di là del discorso estetico in sé ho sempre ritenuto una bozza la fase in cui si può toccare con mano il processo artistico puro, dove si possono vedere con i propri occhi dogmi e princìpi misterici attraverso i quali l’arte rivela se stessa. Nel momento della bozza c’è il segreto più intimo e incomunicabile della genesi artistica. È un momento particolare, composto da umano e quasi divino allo stesso tempo, perché composto da volontà e caso, da studio e istinto, da ricerca e talento. Nella bozza c’è tutto quello che l’artista ha da dire tramite l’arte e tutto quello che l’arte ha dire tramite l’artista. C’è ciò che sarà per mano d’autore e ciò che è destinato a essere per mano divina. Dove per “divino” si intende quell’enigma che non trova (e non dovrebbe mai trovare) una spiegazione razionale all’origine del prodotto artistico, come se un’opera fosse al 95% umana e 5% proveniente da un sintagma che di volta in volta si può chiamare “caso”, “fortuna”, “imprevisto”, “coincidenza”, “talento” sino ad arrivare a identificarlo con Dio, se lo si desidera.
Ed è veramente così, questo 5% esiste davvero. Questo elemento di imprevedibilità è alla base della pittura zen, in particolare quell’aspetto incentrato sul disegno di un kanji o una figura (quella tipica, per esempio, è l’ensō, ovvero il cerchio) realizzata con un unico gesto senza mai sollevare il pennello dalla carta. Tutto si deve consumare all’interno di un movimento istintivo e minimo, pochi secondi senza pensare ma solo avendo un’idea in mentre. È un mistero, questo, che porta in sé quella componente dell’imprevisto che, a partire da Freud in poi, dialoga con l’istinto e l’inconscio, riallacciandosi alle forme primeve e più genuine dell’arte.
È lo stesso mistero che dà il nome a un interessante film-documentario su Pablo Picasso, un lavoro di stampo biografico che più che imprimere la vita e il pensiero dell’artista su celluloide, ne ha inciso il segno. Perché l’arte del pittore spagnolo è un discorso che ha a che fare molto con il primitivismo artistico, non a caso è celebre la sua frase “ho impiegato tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino”.
Il mistero Picasso, diretto da Henri-Georges Clouzot, è un lavoro particolarmente interessante e particolarmente verista: il progetto consiste nel puntare una macchina da presa sul retro di un foglio posto su un cavalletto orizzontale. Dall’altro lato del foglio Picasso punta il pennello e inizia a dipingere in modo che noi vediamo il disegno materializzarsi dal nulla, e di tale disegno ne seguiamo per intero la nascita, l’evoluzione e infine la chiusura in quanto opera finita. I materiali usati dal pittore sono vari, si va da un classico pennarello nero fino all’uso di inchiostri colorati che noi vediamo stendersi sul mare bianco della tela. Si parte da un punto, una linea, un cerchio e poi a questi si aggiungono altri punti, altre linee, altre forme. Da veri spettatori non capiamo quanto sta per accadere sul foglio, siamo solo consci di questi tratti di inchiostro che si intrecciano, curvano e seguono percorsi tanto liberi quanto precisi.
Ed è a questo punto che avviene il miracolo: questi ghirigori lentamente iniziano ad assumere il profilo di qualcosa, e quasi contemporaneamente ci si rende contro che non è così, non stanno assumendo nessun profilo perché ce l’hanno sempre avuto, semplicemente non si era notato. Ecco che mano mano si forma il disegno di un fiore, anzi di un mazzo di fiori, un mazzo di fiori colorati e posti in un vaso. Ma improvvisamente qualcosa cambia. Noi non lo possiamo vedere, perché quel qualcosa è cambiato nella mente di Picasso. O forse anche la sua mente non ne sa nulla, forse il qualcosa che è cambiato lo hanno fatto cambiare le sue mani, obbedendo d’istinto a un comando silenzioso dettato da quella stessa linea di inchiostro e dal mistero che si porta dietro. Fatto sta che quel vaso di fiori non è più un vaso di fiori, nel giro di letterali pochi secondi è diventato un gallo. Un gallo che dall’iniziale bianco e nero va coprendosi di colori che gli gocciolano addosso riempiendo gli spazi bianchi intorno a lui: l’arte ha preso forma e possesso del quadro.
La pittura respira sulla tela come un pesce è per natura a suo agio nel mare e nel mentre si contempla tutto questo, ancora una volta il mistero si affaccia oltre la punta del pennello e ne sovverte di nuovo gli schemi, imponendo – per capriccio o per libertà – un’ultima figura agli occhi di chi guarda, e tale figura è un volto umano che va a inglobare, mangiare e assorbire il gallo di prima, fin quando sulla tela non rimane che questo viso sorridente che pare disegnato da un bambino. E che in realtà è stato davvero disegnato da un bambino, la cui mente così aperta all’arte e alla sua inafferrabile verità è conservata all’interno di un corpo che all’epoca aveva settantacinque anni.
Ma questo non è che uno degli spezzoni del documentario, un disegno tra i tanti, in cui ogni volta, per ogni abbozzo di disegno, viene celebrato il sacro mistero dell’arte, quel mistero che trasforma una linea in un ponte e un ponte in una stella nel giro di pochi istanti e sotto i colpi di un talento sconfinato. La pittura di Picasso si presta perfettamente a quello che è tanto uno spettacolo quanto una lezione tecnica, quanto ancora una lezione filosofica e la pellicola cattura felicemente tutto ciò che c’è da dire in merito, realizzando così un’esperienza artistica notevole, illuminata e fertile nel momento in cui l’opera aperta dialoga con noi invitandoci ne suo polimorfismo, completa e chiusa quando è finita. Ma non per questo meno interessante.