Durante i primissimi anni del dopoguerra, lo stato italiano tende ad adottare una posizione piuttosto liberale nei confronti delle minoranze. Nel 1919, il ministro degli esteri Tittoni, il re Vittorio Emanuele III e Mussolini sembrano concordare sullo stesso punto, ossia la garanzia del massimo rispetto per la lingua delle minoranze e le istituzioni che le rappresentano. Mussolini cambia idea a riguardo, quando viene eletto deputato, nel 1921. Nei primi anni Venti, tuttavia, il P.N.F ancora consente, nelle scuole medie inferiori, l’affiancamento di una lingua sussidiaria a quella italiana, diversa dal francese. Il regime interviene sia nella sfera pubblica che in quella privata con iniziative mirate a formare il “nuovo italiano” ma l’ambito che registra dei profondi cambiamenti è sicuramente quello dell’istruzione.
Nelle province annesse in seguito alla Prima guerra mondiale (il Tirolo meridionale, la città di Fiume e la Venezia Giulia ), fino al 1923, continuano ad esistere scuole dove la lingua d’insegnamento non è ancora l’italiano ma, già intorno al 1918-1919, si riscontrano i primi segnali di trasformazione. L’Alto Adige è la regione di confine maggiormente colpita dall’azione repressiva del governo; i tedeschi non vengono più considerati una minoranza nazionale bensì una “reliquia’’, un problema di cui disfarsi. Le azioni di repressione del governo sono man mano più drastiche. Il governo istituisce delle scuole che prevedono le prime due classi italiane con una sola ora di tedesco al giorno e la terza classe di lingua tedesca con un’ora di italiano al giorno. Sempre negli anni 1918-1919, anche le scuole slovene del Friuli Venezia Giulia si “italianizzano” a poco a poco.
Anche se si hanno le prime avvisaglie del processo di italianizzazione, è comunque a partire dal 1923 che avviene la pianificazione linguistica vera e propria. In tutte le scuole elementari del Regno l’insegnamento è impartito nella lingua dello Stato Con queste parole viene sancito l’uso della lingua italiana nel R.D n.2185. Affinché si possa usufruire di ore aggiunte in cui poter studiare la propria lingua madre, è necessario, per i genitori degli alunni, fare richiesta all’inizio dell’anno scolastico e questo comporta per gli interessati non pochi rischi (potrebbero essere accusati addirittura di anti-nazionalismo). Dunque, le scuole alloglotte vengono gradualmente italianizzate. L’obiettivo del governo è quello “italianizzare” quanto più possibile gli studenti, nell’arco dei cinque anni di scuola elementare. Inoltre, i programmi scolastici prevedono l’insegnamento della «lingua di stato» per una durata di 5 ore settimanali alle medie e di 6 ore alle magistrali. I ginnasi-licei di Bolzano vengono soppressi al fine di favorire un’italianizzazione ancora più veloce, voluta in particolar modo dall’allora senatore e direttore dell’Istituto di studi per l’Alto Adige, Ettore Tolomei, che arriva persino a proporre delle borse di studio, così da incentivare l’iscrizione alle scuole italiane. La lingua minoritaria viene semplicemente considerata una “seconda lingua” e, per essere ammessi agli istituti superiori, è obbligatorio un esame di italiano.
Nel 1925, il ministro Fedele abolisce anche le ore aggiunte per gli alunni alloglotti e a risentirne sono certamente le scuole tedesche, slovene e croate. In seguito a queste decisioni, il clima diventa sempre più teso, per questo il governo concede almeno la libertà di professare la propria religione nella lingua materna. L’unica occasione che si ha di apprendere il dialetto materno è fornita dalle scuole serali e dai dopo scuola a pagamento. Con un decreto del 10 marzo 1927, nella regione della Venezia Giulia, viene imposto l’uso dell’italiano fino ad arrivare, nel 1931, alla soppressione definitiva dell’insegnamento dello sloveno nei licei.
Alcuni corsi per l’apprendimento della lingua italiana da parte della popolazione alloglotta, sia per adolescenti che per adulti, vengono promossi dall’Opera Nazionale d’Assistenza all’Italia Redenta. Molto attiva è anche la «Società Nazionale Dante Alighieri». Anche gli insegnanti incontrano non poche difficoltà, dato che l’insegnamento in lingua italiana è ormai indispensabile e coloro non in possesso di quest’abilitazione sono costretti a sostenere un esame per poter accedere all’insegnamento, per giunta anche molto difficile. I diplomi e i certificati conseguiti durante gli anni del dominio austriaco non hanno più alcuna validità. L’unica alternativa all’esame di italiano è il prepensionamento o le lezioni private che sono, tuttavia, vietate (vengono presi, infatti, provvedimenti molto seri a riguardo). Come risposta, nascono delle scuole clandestine, spesso sostenute dal clero, con l’intento di salvaguardare il patrimonio linguistico e culturale delle minoranze. In Alto Adige, contro la repressione delle scuole clandestine nascono le Katakomben-schulen che riescono a sopravvivere a lungo, nonostante le persecuzioni (gli insegnanti di queste “scuole catacomba” rischiavano anche il carcere o il confino).
In Alto Adige, vengono perseguitati anche i parroci allogeni che si ostinano a non utilizzare l’italiano nell’insegnamento religioso, le preghiere infatti vengono recitate in tedesco. Mussolini respinge addirittura la richiesta del Papa di poter utilizzare la lingua minoritaria almeno per ciò che riguarda l’istruzione religiosa. La questione religiosa è un nodo molto controverso perché la Chiesa contrasta fortemente il regime fino ad optare per l’insegnamento della religione direttamente nelle chiese. Il regime, dal canto suo, riconosce l’importanza dello studio di questa materia ma, tranne pochissimi casi in cui si giunge a qualche compromesso, reprime ogni ingerenza del clero. Molti preti e sacerdoti vengono denunciati, soprattutto nella provincia di Bolzano. Questo processo di italianizzazione riguarda ovviamente anche altri ambiti come quello dell’onomastica e della toponomastica, poiché l’obiettivo del governo è “invadere” tutti gli spazi della vita di un individuo.
Nell’Alto Adige, il criterio di bilinguità nell’uso pubblico della lingua non viene più rispettato: già il decreto Guadagnini del 1922 attribuisce priorità all’italiano (anche le iscrizioni funerarie sono sottoposte all’italianizzazione). Sul resto del territorio nazionale, la situazione non è molto diversa dato che le insegne in lingua straniera vengono comunque scoraggiate e sono previste delle contravvenzioni per chi non esegue gli ordini del governo. Sono pochi i contesi in cui viene ancora permessa la bilinguità, si tratta principalmente di uffici commerciali e di alcuni edifici di culto. Qualche anno più tardi, la stessa sorte tocca alla Venezia Giulia; qui il partito fascista agisce con la forza, ricorrendo alla rimozione forzata delle insegne anche di notte se necessario.
Con il R.D del 29 marzo 1923 (n.800), viene stabilito l’uso della lingua italiana per i nomi di luogo più importanti; per tutti gli altri è concessa la lingua minoritaria solo se anticipata dalla rispettiva forma in italiano. Sia i segretari comunali che gli impiegati devono comprovare la loro conoscenza dell’italiano e lo stesso vale per i magistrati che, in caso contrario, rischiano di perdere il lavoro. Secondo il decreto di Guadagnini n.1796 del 28 ottobre 1923, la lingua d’ufficio dev’essere solo ed esclusivamente l’italiano. Questa decisione non può non alimentare le proteste di coloro i quali si sentono privati dei propri diritti, tra cui quello di potersi difendere nella propria lingua.