Catherine Dunne non ha bisogno di presentazioni, specialmente per il pubblico italiano, da sempre suo avido lettore. Con il suo primo romanzo, nel 1997, ha riscosso immediatamente un grande successo di pubblico e critica, anche grazie all’indimenticabile protagonista e alla rappresentazione quasi chirurgica dei personaggi coinvolti. Personaggi costretti a reagire a eventi cruciali, facendo scelte che spesso li conducono verso vite meno convenzionali. Stile narrativo che la contraddistingue da oltre vent’anni, così come il legame con la natia Dublino.
La scrittrice è stata recentemente ospite di una conferenza in merito, presso Palazzo Ducale a Genova. Conferenza durante la quale, le è stato dato modo di spiegare l’importanza del mare dublinese per gli irlandesi; da un punto di vista storico e simbolico. Precedentemente all’incontro abbiamo avuto modo di approfondire con lei, concetti chiave e dinamiche della sua narrativa.
È d’obbligo chiederle - in vista della conferenza genovese - della sua relazione con la Capitale irlandese e in che modo è cambiata la vostra ‘interazione’ nel tempo.
La Dublino in cui abito non ha molto a che vedere con quella in cui sono nata. La città degli anni Cinquanta era grigia e deprimente, così come negli anni Sessanta. Negli anni Settanta, la distruzione dei quartieri georgiani della città era ben avviata, la loro severa eleganza faceva spazio a uffici tutti uguali. Tuttavia, c’erano sempre la spiaggia e il mare, la famiglia e le amicizie, le scuole e le biblioteche che facevano della città la mia casa. Volente o nolente, Dublino scorre nelle mie vene. Oggigiorno, a dispetto di varie crisi economiche, il tessuto della città sta migliorando. La sua struttura cambia, l’infrastruttura dei trasporti è migliore rispetto a un tempo, le strade sono più adatte alle persone. Nonostante questo, è ancora divisa ed è molto costoso viverci. La crisi edile è ai massimi storici e ci sono molte persone emarginate. Riassumendo, la relazione con la mia città natia è complessa e sfaccettata come Dublino stessa.
Il suo stile narrativo è celebre per attribuire a personaggi apparentemente ordinari, tratti individuali indimenticabili. Quali sono i motivi che sottendono alla sua scelta di personaggi e ambientazioni?
Ho sempre creduto che non esista davvero una ‘vita ordinaria’ o un ‘personaggio ordinario’. Tutta le vite valgono la pena di essere raccontate. Con questo spirito nasce l’interesse per i miei personaggi immaginari: sotto alla superficie – infatti - il loro mondo interiore brulica di vita, amore, contraddizioni, desiderio e disperazione. Il lavoro dello scrittore, penso sia quello di essere una sorta di archeologo della psiche: deve scavare a fondo e scoprire cosa spinge le persone a fare quel che fanno. Le nostre motivazioni sono infinitamente complesse e affascinanti. Una volta portato in superficie ciò che vibra al di sotto, il compito dello scrittore è di attivare una sorta di alchimia; trasformare le nostre illuminazioni in finzione. Per quanto riguarda le ambientazioni, dipendono dalle prerogative della storia.
Quando si parla dei suoi lavori, è impossibile non menzionare le donne formidabili che li popolano. Ha scritto di violenza domestica, abbandono, ascesa e declino. Sarebbe interessante sapere quali sono le sfide nello scrivere di argomenti così delicati con un tocco umano così profondo?
Non penso che le mie protagoniste femminili siano davvero formidabili – semplicemente si trovano in situazioni in cui la loro forza personale viene in superficie e, laddove intoccata fino a quel momento, le trascina verso la sopravvivenza. Mi occupo dei temi che menzionati perché non potrei fare altrimenti! Tradimento, abuso di potere, la fenice che risorge delle proprie ceneri dopo una vita che si è schiantata al suolo, sono storie che popolano l’aria che mi circonda. Scrivere fiction è, dopo tutto, un atto di empatia immaginativa. Gli scrittori si mettono nei panni degli altri, camminano nella loro pelle, abitano nei loro risvolti psicologici. È questa empatia, o ‘tocco umano’, che dà alla narrazione il suo cuore pulsante.
Ha un approccio diverso nella ricerca, quando si tratta di preparare un romanzo, un racconto o un saggio?
In un certo senso, il processo di ricerca è simile poiché si inizia con il germoglio di un’idea, o un moto di ispirazione – qualcosa che rifiuta di lasciarmi andare una volta aggiudicatosi uno spazio nella mia coscienza. Con i romanzi, il processo è solitamente lento: dall’accertarsi che i dettagli geografici, storici e fisici siano corretti, per esempio, alla più complessa ricerca psicologica per quanto riguarda le nozioni scientifiche sull’abuso di potere, solo per citarne uno. Tuttavia, spesso la ricerca continua anche mentre scrivo: sono attività complementari. Per quanto mi riguarda, il racconto è legato più a un’intuizione che alla ricerca. L’impeto iniziale deriva da un luogo simile, ma la storia è incentrata su un momento di illuminazione, un brano vivido che consenta di dare un’occhiata alla vita del personaggio, piuttosto che svelarla per intero. I saggi mi affascinano. Lunghi o corti, mi consentono un punto di vista personale – magari nuovo, controverso, ad ampio raggio o intensamente focalizzato – su un argomento che mi intriga. La sfida è quella di unire l’intuizione allo voce autoriale che coinvolga immediatamente i miei lettori.
Ha un folto gruppo di lettori che non vedono l’ora di leggere i suoi nuovi lavori, potrebbe darci qualche anticipazione su quel che ci riserva il futuro?
Se si intende in termini di ciò a cui sto lavorando – non ne ho idea. Avendo appena ultimato ‘Come cade la luce’, mi sto godendo un periodo di letture e riflessioni. Il silenzio è necessario, dimodoché la prossima storia – di solito distante, spesso esitante ma non senza una sua identità – riesca a farmi sentire la propria voce.