Quando incontriamo Circe, tra le pagine dell’Odissea, incontriamo un archetipo in trasformazione. Un archetipo che emerge dal mondo selvaggio di un divino femminile arcaico, di cui custodisce e tramanda i simboli; e come in tutte le figure di transizione, la sua cifra specifica è un’ambivalenza da esplorare attraverso le sue contraddizioni. Della primitiva natura di dea, di sacerdotessa e di sciamana, Circe conserva i caratteri tipici: il dominio sugli animali e sulla vegetazione, le conoscenze farmaceutiche, l’arte della tessitura magica, il potere di trasformare.
Circe è adepta di Ecate, che è maestra di magia e patrona lunare delle arti oscure: una divinità legata alla ciclicità, alla fertilità, alla sfera della generazione. La dea che ripercorre il dinamico divenire della luna nelle sue ricorrenti epifanie, nel succedersi incessante del nascere, del crescere e del calare, ed è vergine, sposa e madre, vegliarda. Eppure, nel momento in cui l’universo ellenico fa irruzione nello scenario culturale mediterraneo, Circe viene fagocitata nella dinastia di Helios, il Sole, che si appropria delle antiche funzioni inglobandola non senza contraddizioni nell’abbraccio della nuova religione solare. Helios, poi Apollo, proclama la sua patria potestas sulle più antiche divinità femminili, ma la sua resta pur sempre una paternità adottiva: nella natura di Circe continuano a prevalere eredità distanti, dimenticate, ombre che eclissano la luminosità abbagliante del sole.
Vive circondata dall’elemento primordiale di vita, l’acqua, nella solitudine di un’isola che è anche un omphalos virtuale, un centro da cui osservare il mondo, ai confini della geografia conosciuta. Un’esistenza remota e inaccessibile, la sua, incubazione di sapere magico ed erboristico. In questo luogo incantato, spinto da forze oscure, approderà l’Eroe, per farsi guidare dall’anima femminile verso una comprensione più profonda dell’esistenza. La sua isola è un aldilà: è necessario passare dalle terre dei morti se si è in cerca dell’immortalità. E in quell’isola, se si ha la fortuna di trovarla, si muore per poi risorgere.
Circe tesse una grande tela: così la trovano i compagni di Ulisse quando varcano la soglia della sua dimora. Ordina i fili del caos, intreccia destini nel lavoro antico della creazione. Intorno a lei, come nel tempio di un’antica dea madre o di una “signora delle fiere”, si aggirano animali selvaggi, addomesticati come cani sottomessi al canto magico della padrona. Tra i suoi attributi possiede una bacchetta fatata, strumento di potere, antica prerogativa degli dèi; ma la sua magia più grande è la metamorfosi che è in grado di compiere sulla natura umana, il sapere alchemico esercitato sulla materia. Può degradare l’uomo in animale, come nell’incantesimo che compie sui compagni di Ulisse, che trasforma in maiali: icone di una regressione a uno stato inferiore, ma anche animali sacri alle divinità infere. È un atto nel quale si può leggere simbolicamente la rivalsa del potere della donna sulla sfera maschile che impone il suo dominio attraverso la razionalità, e che qui per contrappasso viene riportata a uno schema ribaltato di bestialità sordida; una punizione che è però anche recupero di una perduta famigliarità con la natura. Ma se vuole, Circe può anche sollevare l’essere umano a un livello più elevato di coscienza.
Mai Omero la definisce maga, sempre dea: tuttavia, nell’Odissea appare in parte già spoglia degli antichi attributi di divinità salutare, di cui sembrano prevalere solo i risvolti distruttivi. La conoscenza delle erbe e della magia verde la ammanta di un potere terribile e pericoloso: i filtri che mescola e compone con arte sapiente non hanno il nome di medicamenti, ma sono intrugli funesti, tristi veleni. Il suo agire, nel sentimento ellenico, è già l’agire della fattucchiera. La dea “polyphàrmakos”, esperta di rimedi, ben presto è diventata l’avvelenatrice, l’incantatrice. Gli antichi farmaci si sono trasformati in filtri venefici, bevande micidiali. Nella pratica delle sue liturgie Circe esercita i riti delle erbe cantate: preparando il sortilegio, trita le erbe maligne e ne estrae i succhi nocivi, impregnandoli di formule infernali, e intanto mormora cantilene incantate, misteriosi grovigli di parole.
La figura di Circe, già distorta e snaturata dalla cultura greca rispetto allo splendore della sua natura di dea mediterranea, trattiene gli ultimi bagliori di un universo antico e soffocato, ma rimane un’importantissima icona di transizione, che costituirà un riferimento fondamentale per le successive elaborazioni simboliche in tutto il mondo occidentale. Pur mantenendo vivo il legame tra l’antico substrato culturale e l’immaginario della donna saggia, in Circe finiranno per prevalere gli aspetti più ambigui ed enigmatici. L’archetipo luminoso subirà gli attacchi di un progressivo svilimento: filosofico, fisico, iconico, e la giovinezza e il fascino della maga incantatrice lasceranno il posto al disfacimento della vecchiaia: una trasfigurazione imposta dal peso del giudizio morale, più che dal naturale succedersi di una nuova stagione della vita. Circe è stata prima dea, poi maga, poi fattucchiera e, nello sguardo della storia, è stata certamente lei la prima strega.