L’homo sapiens è riuscito a sopravvivere per tutto questo tempo grazie a un’innata forza di volontà, che tradotta in termini psicologici e nel contesto di varie discipline scientifiche, definisce la capacità di un sistema di adattarsi al cambiamento, cioè la resilienza.
Molti pensano che esistano problemi insormontabili, da cui non si può uscire, e spesso trovano giustificazioni per deresponsabilizzarsi ed evitare difficoltà apparentemente irrisolvibili. In realtà l’uomo è biologicamente preparato a sopportare qualunque fatica grazie al proprio cervello, sede della psiche e delle ghiandole endocrine, che i nostri antenati hanno sviluppato. I nostri antenati erano frugivori ma quando la natura è diventata più inospitale e arida, sono stati costretti a cambiare alimentazione e diventare carnivori. Ma come potevano cacciare animali che erano molto più veloci di loro? Grazie proprio alla forza di volontà, che li ha resi resilienti, con una tecnica di 'caccia persistente', favorita da un tipo di termoregolazione veicolato dal sudore e non dalla respirazione, come gli altri animali.
Così l'uomo preistorico, usando anche la logica e le strategie di gruppo, poteva inseguire le proprie prede portandole all'esaurimento di energie, togliendo letteralmente il respiro perché i loro corpi troppo accaldati non riuscivano a ripristinare una situazione funzionale alla fuga. La resilienza è una caratteristica del genere umano quale rimedio a un adattamento specifico. Ciò ha reso la fronte dei primati più ampia e questo cambiamento ha generato una vera e propria trasformazione del cervello sviluppando fortemente i lobi frontali e le aree prefrontali.
Perché parlare di resilienza? Perché oggi si evidenzia la sua mancanza nell’incapacità diffusa a tutti i livelli, sociale, politico, economico, di gestire le difficoltà della vita che sono sempre più numerose. È evidente come il sistema capitalistico ci porti a un avido consumismo generando dipendenze di ogni genere e tipo: cibo, accessori, servizi, sesso, farmaci, ecc. In questo senso i messaggi pubblicitari evocano idee del tipo: “più hai più vali” (automobili), “non sei perfetto” (alta moda), “soddisfa subito le tue esigenze” (fast food), “non sentire più dolore” (farmaci), “non sei al sicuro” (assicurazioni), “se non vuoi restare solo connettiti” (cellulari e social network).
Il risultato è la frammentazione dell’individualità a discapito della resilienza in termini di condivisione e temperamento. Una condizione che allontana l'uomo dalla realtà rendendolo fragile e offuscando le sue risorse interiori di natura spirituale, perché la psiche non è nient’altro che una manifestazione dell’anima degli esseri viventi e ciò che ha permesso all’uomo di sopravvivere proprio grazie al suo raziocinio.
Siamo giunti a un punto in cui le nuove generazioni sono penalizzate rispetto a quelle precedenti. Beppe Severgnini usa il termine di “generazione pitone” per la classe dirigente dell’Italia della Seconda Repubblica, coloro che, nati tra il ‘35 e il ‘55, hanno avuto risorse illimitate per raggiungere i loro obiettivi e spesso hanno ottenuto il massimo risultato con il minimo sforzo. Le nuove tecnologie e il mercato dell’epoca hanno permesso a molti di arricchirsi e intraprendere la scalata sociale, mentre a pochissimi l’ingresso nell’aristocrazia postmoderna. Questo modello sorto negli anni del boom economico ha indebolito la volontà e la capacità critica delle nuove generazioni e ha portato spesso all’estrema conseguenza di abbandonarsi al fatalismo, adagiandosi sul divano davanti al televisore o sulla sedia davanti al computer.
È evidente come la realtà materiale, esaltata dalla società dei consumi e supportata dalle nuove tecnologie, create a loro volta dalla scienza, sia fallimentare per la “verità” dell’uomo. Quella verità che Gandhi chiamava “satyagraha” ma di cui un po’ tutte le sacre scritture e uomini spirituali parlano, cioè la natura divina dell’uomo, il fatto inoppugnabile che siamo venuti al mondo per crescere e diventare uomini e non “gazze ladre” che raccolgono oggetti scintillanti per coltivare il proprio potere, concetto ben diverso da quello di forza, che semmai si ottiene nutrendo lo spirito e aumentando così la capacità di adattamento. Perché è di questo che si tratta oggi, così come nella preistoria: adattarsi all’ambiente circostante.
La società ci spinge ad allontanarci dalla “verità” attraverso uno stato dissociativo indotto dalle tecnologie: la televisione e il web. La spettacolarizzazione della cronaca e del libero pensiero inappropriato o improprio non permette di metabolizzare eventi traumatici, e con il rifiuto dell’esperienza l’evoluzione spirituale si arresta o addirittura potrebbe non cominciare mai. Anche la possibilità di dire tutto ciò che passa per la testa diventa illusione incurante della sensibilità altrui e soprattutto della propria. Ciò deresponsabilizza l’individuo dalle sue azioni e lo allontana dalla realtà.
Da qualche anno a causa dell’uso compulsivo di strumenti on-line, come videogiochi e realtà virtuali, sono nate nuove malattie psichiatriche. Questi fenomeni degenerativi sono inizialmente sorti in Giappone e le persone affette da queste patologie sono chiamate “hikikimori” (stare in disparte, isolarsi). Costoro presentano una pesantissima dissociazione dalla realtà, per rimanere connessi alla rete sono costretti a chiudersi nella loro stanza senza contatti col mondo esterno, senza mangiare né bere se non all’estrema occorrenza. Queste persone vivono l’illusione estrema del mondo virtuale: la totale assenza di dolore e di sofferenza.
Le avversità sono invece condizioni fondamentali della crescita interiore e ci danno la misura di cosa è necessario cambiare nella nostra vita. Ci pongono di fronte ai nostri limiti, spronandoci ad accettare ciò che ci accade, e infine a comprendere di essere sulla via della “verità interiore e universale” che è appunto la realtà spirituale.
Continua il 20 Maggio...