Oggi, in un presente recentissimo in cui l’Italia sembra non essere in grado di trovare il bandolo di quella matassa di problemi e di mali collettivi sempre superficialmente e conniventemente evitati o rimandati, perché non cercare un’“illuminazione” dai padri della nostra cultura? L’occasione ce la può offrire un libello poco conosciuto e valutato di Giacomo Leopardi la cui penetrante analisi sa cogliere alcune delle radici profonde della nostra crisi.
Scritto nel 1824, ma rimasto inedito fino al 1906, il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani, pur incompiuto, mette impietosamente il dito nella piaga di quella amoralità, di quel “vuoto di costumi” che ha avvelenato e avvelena la vita sociale e politica della penisola e, come ha commentato Alberto Arbasino, questo pamphlet risulta “Indispensabile più di ogni Censis per capire l’Italia e gli Italiani”, e Raffaele Simone: “A distanza di due secoli non conosco un’analisi più acuta dei fondamenti del Mal d’Italia”.
Già Madame de Staël, in Corinne ou l’Italie, aveva colto e anticipato alcuni aspetti della morale degli italiani, scrivendo che: “Non si lasciano giammai sviare dal piacere per vanità, né dal loro fine per applausi” e che “amano più la vita che gli interessi politici, i quali non li toccano affatto”, per cui in Italia “Non c’è nessun rispetto per i costumi … e le idee di considerazione e dignità sono molto meno potenti e anche meno conosciute …”.
Leopardi cerca di andare più in profondità, alle origini del problema, con uno scavo filosofico e antropologico che lo porta a costatare come lo sviluppo del pensiero e della razionalità, con la conseguente perdita delle “illusioni” e dei miti, abbia portato l’uomo a quella “coscienza infelice” che connota tutto il mondo civilizzato. Impossibile, però, tornare indietro allo stato “fanciullesco”: “In questa universale dissoluzione dei principi sociali, in questo caos che veramente spaventa il cuore di un filosofo, e lo pone in gran forse circa il futuro destino della società civile … le altre nazioni civili, cioè principalmente la Francia, l’Inghilterra e la Germania, hanno un principio conservatore della morale e quindi della società, che benché paia minimo, e quasi vile rispetto ai grandi principi morali e d’illusione che si sono perduti, pure è di grandissimo effetto. Questo principio è la società stessa …”.
E, per esemplificare, nel Discorso Leopardi scrive: “Dove mai si potrebbe se non in Germania e nel fondo del settentrione, mantenere e sussistere a’ tempi nostri e in tanto dissipamento d’illusioni, la società dei Fratelli Moravi e molti altri simili stabilimenti e costumi fondati sopra soli principii e sopra la sola forza dell’opinioni? E opinioni certo non conformi all’esatta, secca e fredda filosofia geometrica-moderna. Che dirò del quakerismo che ancora dura? E di cento simili cose d’Inghilterra, Germania e degli altri popoli del nord. Né mi si oppongano simili pratiche religiose o qualunque, degli italiani, perché queste in Italia, come ho detto, sono usi e consuetudini, non costumi e tutti se ne ridono …”.
Qual è la radice di questo male? In uno scetticismo compiaciuto e ostentato: “Gl’Italiani sono … molto più filosofi di qualunque popolo straniero, poiché essi convivono e sono immedesimati con quella opinione e cognizione che è la somma di tutta la filosofia, cioè la cognizione della vanità di ogni cosa … l’indifferenza che ne risulta è perfetta, radicatissima, costantissima; l’inattività, se si può così dire, efficacissima; la noncuranza effettivissima …”. Al massimo, potremmo aggiungere con Cesare Beccaria, in Italia sono fortemente sentiti solo i vincoli familiari, che degenerano nel “familismo”: “Lo spirito di famiglia – ha scritto l’illuminista milanese - è uno spirito di dettaglio e limitato a’ piccoli fatti” e interessi privati, e non può sostituire: “lo spirito regolatore delle repubbliche, che è padrone dei principii generali, vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte”.
Manca, dunque, quella che l’autore dello Zibaldone chiama “società stretta”, cioè una società permeata da un senso civico, che pur non rifacendosi a principi morali e religiosi particolari, permette un senso di giustizia condiviso, quindi più rispetto reciproco e una civile convivenza.
“Si vede dalle sopraddette cose che l’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun’altra nazione europea e civile, perocché manca di quelli che ha fatti nascere ed ora conferma ogni dì più co’ suoi progressi la civiltà medesima, ed ha perduti quelli che il progresso della civiltà e dei lumi ha distrutti …”, che è anche una lampante anticipazione del concetto di cultura/civiltà di Oswald Spengler. Concetto che poi Leopardi ulteriormente così esemplifica: “Sì per l’una parte è inferiore alle nazioni più colte o certo più istruite, più sociali, più attive e più vive di lei (civiltà n.d.r.), per l’altra alle meno colte e istruite e men sociali di lei, come dire alla Russia, alla Polonia, al Portogallo, alla Spagna, le quali conservano ancora una gran parte de’ pregiudizi de’ passati secoli, e dell'ignoranza hanno ancor qualche garanzia della morale (cultura n.d.r.) … Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci”, anticipazione del parallelo giudizio di Pasolini sull’Italia: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”.
Non è da escludere che l’impietosa analisi leopardiana degli italiani sia stata, almeno in parte, dovuta alla sua disastrosa esperienza romana; in una lettera del 1822 al fratello Carlo, infatti, scriveva che “I Cardinali sono le più schifose persone della terra” e sono soliti denunciare all’Inquisizione i mariti e i figli delle donne che non accettano le loro “avances”, e dei prelati, in genere, nota che “nessuno fa fortuna se non per mezzo delle donne” … mentre la cultura è in mano a faccendieri che esaltano le più squallide figure di intellettuali asserviti al potere.
Così come sembra far risuonare le atmosfere dei salotti romani questa sua caustica riflessione: “Per tutto si ride, e questa è la principale occupazione delle conversazioni … in Italia il più del riso è sopra gli uomini e i presenti. La raillerie e il persifflage ... occupano e formano tutto quel poco di vera conversazione che v’ha in Italia… Gl’italiani posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente e di se pousser au bout colle parole …
Ma chi, ultimamente, ha saputo cogliere tutta la dolente attualità del Discorso, traendone spunto per un corrosivo seguito di “pensieri d’un italiano d’oggi”, preludio al successivo Morbo Italico, è stato Franco Cordero. Anzi tutto ne ha notato lo stile “senza pose profetiche, in una lingua d’impianto classico, ritmo moderno, timbro forte. Desta scandalo questa poetica del pensiero in una letteratura postarcadica, gravata d’ipoteche confessionali. Corrono abissi dal Manzoni saggista d’eloquio affannoso, tra forense e omiletico …” Ma soprattutto Cordero nota “l’intelligenza sfrenata, onnivora, noncurante dei dogmi, refrattaria ai tabù affettivi …”.
L’Italia è malata grave, ma lo è tale perché quasi sempre sorda alle voci non retoricamente celebrative, come quella di Leopardi, che la invitavano a un’autocritica seria, che partisse da una disamina coraggiosa dei suoi secolari difetti. “Recenti sventure rinfocolano antichi mali italiani. Sudditi congeniti cercano padrone e lo servono con una gran paura d’essere liberi: pensano poco o niente; moralmente sordi, rifuggono dalla serietà tragica, né sopportano l’arte, intenti a tristi farse; l’anarcoide ipocrisia conformistica maschera un socievole cannibalismo. L’esito è miseria cronica”.
Siamo ancora in tempo? “Non costa niente – conclude Cordero – fingere un futuro indeterminato, lavorando meglio che possiamo … il disincanto stimola dinamismi volitivi: non foss’altro, è una questione estetica; abitiamo un mondo sordido; ritocchiamolo in meglio”.