L’inglese moderno deve tutto a un irlandese come Joyce
e a un americano come Ezra Pound(Carmelo Bene)
Stat Roma pristina nomine / nomina nuda tenemus
(Bernardo di Cluny)
L’unica opera degna di essere messa in libreria vicina all’Ulisse di Joyce sono i Cantos di Ezra Pound. Non a caso sia Pound che Carmelo Bene amano incondizionatamente l’Ulisse. Non a caso è Pound nei Cantos che fa ricomparire il Lorenzaccio che tantò Bene amò (Cantos V, VII). Lorenzaccio: colui che rifiuta la recita della storia, e anche se stesso nel ruolo che il caso gli pone addosso. Annulla se stesso uccidendo. A casaccio.
I Cantos e l’Ulisse sembrano la medesima opera. L’unica differenza nel ritmo. L’Ulisse è l’Ulisse. I Cantos sono un miracoloso apparire dell’Epica nel secolo che più l’epica ha contraffatto: il Novecento! E non poteva accadere che dopo l’Ulisse. Si sente a pelle. Immediatamente. Nei Cantos palpita l’urgenza di una sacra manìa che tutto regge. Dopo Delfi e Nostradamus ecco il miracolo del ritorno dell’oracolo, dell’epigramma, dell’epitaffio, della lapide. I Cantos sono lapidi parlanti, vaticinii, folgorazioni. Non c’è tempo. Non c’è più tempo né evoluzione. “Non si è mai nati” come diceva Carmelo. Sisigmondo Malatesta è contemporaneo di Jefferson, Odisseo di Keynes. Mussolini viene accostato a Dioniso Zagreo (Cantos LXXIV). Poesia che supera per eccesso di vicinanza il concetto di metafora, di simbolo. “L’eterno ritorno dell’eguale… ” Piuttosto è canto araldico, totemico, blasonico, talismatico.
Questo canto vuole liberare dalla schiavitù della stampa, dello scritto. È canto visivo. Ricco di pause, silenzi, spezzature, segni non discorsivi. Non ci sono luoghi, se non il “non luogo” del farsi della Phonè. Sarebbe piaciuto a Leonardo che disprezzava la temporalità dispersiva del discorso a fronte della totalità del parlar visivo. Non si percepisce alcuna direzione né volontà di imporre un senso. I Cantos fremono di luccichii, di “dettagli illuminanti”, tanto quanto i poemi omerici, gli inni di Callimaco. Pound è contemporaneo di Nonno di Panopoli, della sua epica quale mistica labirintica del canto e dei nomi. Vortica una danza, una musica di nomi. Nomina nuda tenemus.
Le “citazioni” che tanto amava Carmelo nei suoi monologhi “in pubblico” rivelano l’essenza dei Cantos quale presenzialità assoluta, magica, talismanica, ideogrammatica, confuciana. Una necessità greca, ineluttabile, tragicamente giocosa, lietamente nicciana, sfingea, autoperformativa sostiene, anima lo slancio ritmico. Un “entusiasmo” capita, accade. Ezra da biblico assume la luce meridiana greca. La luce di Aiòn. Ecco la poesia, cioè l’“essere visitati”. Del Libro mantiene l’invettiva, la fratellanza con Dante, la tensione apocalittica. Ma non c’è soluzione. Altrimenti il canto dovrebbe fermarsi. L’americano accecato dalla luce della Grecia. La risente nelle processioni italiche, nelle tradizioni sociali. Oltre lo strato del folklore e della devozione si entusiasma per il gusto del rito. Per un italiano il Medioevo, il Rinascimento sono storia.
Per l’americano Ezra sono vita, istinto, colori, il traffico del sangue, il caos della Phonè. Accecato dai Nomi. Non importa cosa dice, di cosa si parli nei Cantos. Non si dice nulla. Non c’è spazio per il “detto”. Non ci sono larve, ma sono abbagliamenti. Non c’è separazione fra delirio e grande storia, mischia e chiacchiera. Un’epica nella sua essenza predetta, prediletta. Senza eroi, senza scelte. Un’epica numinosa, cioè sacralmente nebulosa. La reiterazione delle congiunzioni, l’intrico delle lingue, foreste di frammenti, cattedrali di lacerti, esclamazioni, invocazioni, grafiche, spazialità, risonanze. Non c’è futuro se non nel canto. Non c’è passato: tutto avviene ora.
Quando si canta la metamorfosi di Dioniso sulla nave dei pirati che lo hanno rapito (Cantos I) sta accadendo in quel momento. Si sente che il poeta vede quello che sta accadendo nel canto. “Amare è vedere”, scriveva nei suoi appunti, tratti da Riccardo di San Vittore. Che sia merda o denaro o avventure rinascimentali o ebbrezza di folle il Canto supera, assume e riscrive ogni segno. La medesima epica, l’unica ancora possibile, nella Pentesilea di Bene come nel delirare di Ezra. Si sente la presenza. Ma senza “Io”! L’epigrafo è sempre cieco, anonimo. Non conosciamo chi ha elevato le cattedrali. Il nome non ha resistito all’Opera. Ezra ascolta, come Carmelo. Dall’abisso si libra il canto.
La “scrittura” ammicca: eccomi come scarto e relitto, cadavere, fragile muta traccia. Joyce, Ezra e Carmelo segnalano la necrosi della scrittura e dentro questa necrosi danzano, suonano, scuotono. Da un voluto/capitato cortocircuito dell’immagine/segno cercano come rabdomanti, avventurieri il Tao di una liberazione. Non c’è un nome nei Cantos. Ci sono tutti, quindi nessuno! La stessa frequente presenza di numeri, cifre e dell’idolo del denaro non contraddice l’epica. L’Iliade e l’Odissea sono zeppi di esaltazioni della ricchezza d’armenti e di metalli preziosi! L’epica per sua natura è idolica, cioè tratta dell’immagine, della sua fascinazione, del rilucere che abbaglia. Non stupisce che Ezra abbia il coraggio di assorbire la cattiva divinità del denaro nel suo canto universale. Il denaro opera con una divina crudeltà. È non umano, non marcisce, resta iper-uranicamente inalterato e indifferente. Pura violenza, quindi a rischio di sacralità.
Non sarebbe epica quella dei Cantos se non evocasse anche il demone del denaro. Carmelo Bene nella sua Opera esibisce spesso un sacchetto di monete trafficate. La truffa del mondo. La truffa dell’oggetto che si fa specchio e specchio che deruba l’anima, che si sostituisce sia alla res che a colui che la traffica. Nei Cantos si inverte l’etimo sanscrito dell’“epica”; da “ciò che si può dire” (perché si deve dire) a “ciò che si deve dire” (perché si può dire)…
Assolutezza della Phonè.