«Voglio conquistare il mondo e ho iniziato una rivoluzione. Contadina. Sto preparando un esercito di 1000 elementi, 500 donne 500 uomini, che partiranno dai quattro lati di questo agriturismo, incolonnati verso il perimetro di questo terreno. La rivoluzione inizia da qui, dal Casale delle mandrie a Lanuvio, perché qui il grande antropologo e topografo Antonio Nibby ha collocato l’antica città dei Volsci, Polusca, terra più volte conquistata da cui ora, in ragione di una nemesi, può partire un pellegrinaggio di conquistatori. I guerrieri centrali avranno un’altezza normale, circa 180 centimetri; via, via gli altri che si avvicinano al confine si faranno più grandi, fino a raggiungere sette metri. Poi inizieranno a uscire, superando la frontiera, per andare a conquistare la provincia là dove gente di buona volontà, visione e cuore, vorrà accoglierli.
L’esercito raggiungerà casali, agriturismi, spazi collegati alla natura che riportano al cuore e a un umanesimo nuovo. Prevedo una marcia mondiale, dove anche il cibo della terra sarà protagonista di fianco ai miei Polusca, i guerrieri contadini appunto, che nella loro corazza di corten e l’anima di carbonio (perché invecchieranno fuori, ma dentro voglio che vivano per sempre) porteranno il messaggio: pace e cibo per stare insieme, tornare a coltivare la terra per smettere di andare dallo psichiatra».
Non è la dichiarazione di un mitomane, ma di un divertito e divertente visionario, ingegnere civile, classe ’70 votato alla zappa e ai fornelli, che ha messo in piedi un personale progetto rivoluzionario a suon di sculture. E luppolo, ovviamente biologico. Ma andiamo per ordine e partiamo dal luogo del misfatto, Lanuvio. È un paesotto che conta poco più di 13 mila abitanti ed è seduto ai piedi dei Colli Albani, zona vulcanica di cui sono ancora visibili tracce dopo millenni dalle ultime eruzioni. Si spinge fino ai confini del Parco Regionale dei Castelli Romani, ed è uno dei Comuni parte della città metropolitana di Roma, che si estende ben oltre il trentesimo chilometro fuori le mura.
Qui, nell’antica Civita Lavinia, tra filari di viti e apparizioni di martore, falchi pellegrini, istrici, tassi e perfino lupi, Giuseppe Verri produce una birra artigianale di grande classe, gestisce con la famiglia un agriturismo, si mette ai fornelli e cucina per viandanti e amici, mette in piedi incontri culturali, artistici e gastronomici, con sua moglie cresce la figlia Viola appena cinquenne e poi costruisce statue giganti che l’hanno portato ad esporre a Venezia. È stato selezionato con altri artisti internazionali, per partecipare a Open 2017, mostra di arte contemporanea che si svolge per le vie di Venezia, intuizione felice avuta da Paolo De Grandis venti anni fa: un contatto diretto dei cittadini con sculture, happening e performance disseminate per le vie, a testimonianza di quanto l'arte possa irrompere nell'ambiente esterno per attirare l'osservatore.
Il Verri nell’edizione 2017 c’era, supportato pure da una critica coi fiocchi firmata da Philippe Daverio: “Giuseppe Verri è una versione post moderna della figura ancestrale del contadino soldato che rese grande Roma. […] Si è inventato contadino militante e i campi sono la sua officina dove non crea, come dicono oggi tutti gli artisti, ma costruisce opere ambiziose. […]. L’Uomo Sapiens si sforza di tornare sui suoi passi per essere Uomo Faber. L’intellettuale ritrova la dimensione del manovale per scoprire che le arti così si chiamano perché si fanno con gli arti. Il resto è dovuto all’immaginazione. E al sogno”.
E Giuseppe Verri interpreta l’Uomo Faber alla perfezione, muovendo da sogni grandissimi come Il cavallo a dondolo del figlio di Troia: cinque metri e mezzo di altezza per sei di larghezza. Un’opera che dopo avere partecipato a Open trasloca alla dodicesima edizione di ArteLaguna: la scultura sarà infatti esposta nella sezione premio speciale con le opere di altri 115 artisti internazionali, ospitati in quel prestigioso contesto museale che è l’Arsenale di Venezia, dal 17 Marzo all’8 Aprile. «Però questa volta sotto il cavallo ci metto l’esercito dei Polusca in miniatura», precisa Verri soddisfatto, ma anche un po’ incredulo e un po’ divertito perché sa che tutto ciò è una presa in giro. Di se stesso. «Il cavallo a dondolo del figlio di Troia è nato per raccontare delle persone cattive e degli arroganti, dei figli di Troia prepotenti, alteri, supponenti, che non possono far vedere il bambino che hanno dentro, non possono mostrare di avere una parte piccola. A opera finita, però, mi sono accorto che il figlio di Troia sono io. L’adulto che sono oggi ha dovuto inventarsi il cavallone a dondolo per entrarci e tirare fuori il bambino che è in lui, cioè in me. Il pubblico e i critici hanno trovato interessante e divertente l’accostamento tra titolo e contenuto e questo mi onora. Ma non posso fare a meno di stupirmi e ridere e pensare: chi lo avrebbe mai detto?».
Quando aveva appena 13 e viveva a Tor Vergata giocando sulla Casilina, Giuseppe era già 188 centimetri di altezza, anche se dentro si sentiva tanto piccolo. E questo impegnava tutti i suoi pensieri. C’era quel bambino che si guardava allo specchio e vedeva un altro sé aumentato di 1:1000. Una crescita repentina che gli sfuggiva dalle mani, non imbrigliabile fino al punto che le sue gambe e le sue anche cedettero a tanto esuberante sviluppo fisico, imponendogli un intervento chirurgico con conseguente fermo per diversi mesi e poi deambulazione con le stampelle. Una iattura a quell’età, quando si è alle prese con la ricerca identitaria, il sovvertimento ormonale, l’implacabile voglia di provare a vivere e a morire al contempo. «A Maria Pia, il mio primo grande amore, davo un bacetto quando l’accompagnavo a casa, ma non riuscivo ad andare oltre. Mi chiedevo: ma che cosa ho di diverso dagli altri?».
Quella cosa lì di essere un gigante e di non poter scomparire alla vista, di avvertire forte lo scollamento tra cioè che si appare e ciò che si avverte di essere dentro di noi, deve averlo distratto da un percorso artistico che era già evidente fin da quando era bimbo: passava le ore a costruire case e ponti. Li costruiva in miniatura ma li pensava grandi. Ovvio che emulasse il babbo, costruttore edile, autore del serpentone di palazzi dietro la vecchia fiera di Roma, che realizzò una cassetta di legno con ruote a sfera con la quale il piccolo Giuseppe trasportava i mattoni agli operai. Ma non era solo emulazione paterna. Deve essere successo lì che il sogno di costruire ponti e oggetti giganti ha iniziato a scavare dentro inesorabilmente, anche se l’esprit artistico ci ha messo tempo a sbocciare. Prima ha dovuto fare fuori il drago della timidezza, inflittagli da quel gigantismo difficile da gestire e, solo dopo aver buttato le stampelle, Giuseppe ha iniziato per esempio a corteggiare tutte le donzelle, con l’unico obiettivo di farle cadere ai suoi piedi, rivalendosi di anni in cui lui restava al muro, mentre pareva che tutti i suoi coetanei maschi fossero protagonisti di avventure erotiche pazzesche, secondo quel che dicevano loro. «Quel che raccontavano erano racconti, ma io ci credevo, come tutti. E nell’estremo bisogno di essere come gli altri, appena ho potuto ho cercato di fare lo stesso, per accorgermi poi che l’amore è un’altra cosa. Ma questa è storia comune a tutti..».
Prima di capire che la scultura era il suo vero percorso, è passato attraverso un lavoro negli uffici del catasto iniziato a 15 anni come portaborse di un funzionario, ha proseguito con la laurea in ingegneria per regalare soddisfazione ai suoi genitori - come i suoi fratelli uno diventato architetto, l’altro medico chirurgo e la sorella docente di italiano – e ha avviato la carriera negli uffici pubblici del Catasto a Roma, salvo fuggirne a fine Novecento per interrompere un circolo di frustrazione personale e di impotenza civile: «La corruzione l’ho vista da vicino. Mi sono detto: o la combatto o me ne vado. Me ne sono andato». Anche perché quel momento ha coinciso con l’acquisto del terreno e dell’agriturismo a Lanuvio dove il seme dell’arte, mai sopito, è emerso dalla terra pazientemente coltivata. A quel punto Verri è passato prima alla libera professione come ingegnere civile iniziando a investire più tempo nella creazione di sculture e portando così l’attività di costruttore in una dimensione più cerebrale, come annota Philippe Daverio. Poi ha iniziato ad allontanarsi anche dalla professione per dedicarsi sempre di più alla terra e all’arte.
«Ho sempre fatto sculture da autodidatta, anche lavorando per il Catasto, ma senza crederci fino in fondo. Sono però un seminatore molto paziente anche se fino a due anni fa non sapevo perché lo facessi», dice sincero Giuseppe che nel frattempo però ha partecipato a 150 mostre, realizzato 700 opere alcune delle quali ora si trovano a Seul, in Israele e Australia acquistate da privati infatuati della sua arte. Ha perfino realizzato una Sacra sindone costruita con una tecnica inventata da lui: una tavola di 2 metri per un metro donata a Papa Wojtyła rimasta Vaticano.
«Ho tenuto tutto dentro per un lungo tempo, poi sono esploso. Un terremoto. Ho preso coscienza della mia forza creativa. Io dentro di me penso di essere il migliore, ma penso che anche gli altri lo siano. Ho preso coscienza della mia unicità e di quella altrui. Mi piacerebbe che tutti ascoltassero il loro terremoto interiore! Quando sto da solo mi parlo: ho tante cose da dirmi, tanti progetti da pensare, più ora che vado per i 50 anni, di quanti progetti avessi venti anni fa… Le mie opere non sono perfette perché io non lo sono. So però a che cosa tendo: alla semplicità, vera. Quel genere di semplicità che capita quando, per esempio, incroci lo sguardo di uno o una sconosciuta per strada e in quell’istante susciti un sorriso, cioè una relazione umana che dà un calore enorme. Gigante, direi. Come le mie sculture che la gente guarda e sorride. A me fa impazzire far sorridere le persone perché sorridere fa stare bene».