“La figlia di Vincenzo Monti – La vedova di Giulio Perticari
Anima cuore ingegno pari a questi gran nomi di fortuna ahi troppo diseguale qui sotto l'altare di Maria Addolorata suo rifugio e sua tutta speranza depose come aveva desiderato la terrena sua spoglia ed i suoi patimenti nacque nel giugno 1792 morì il 7 settembre 1840.
Sempre buona ora anche felice”
Questa l'epigrafe sulla tomba di Costanza Monti, nella Chiesa dei Serviti di Ferrara, che riassume un'esistenza che avrebbe promesso una vita intensa e fortunata e che invece si risolse in una “leggenda” triste e sofferta fino alla fine.
Pupilla di un padre corteggiato come uno dei più celebrati poeti dell'epoca, ma anche controverso per il suo carattere debole e instabile nelle sue contraddittorie scelte politiche, Costanza ereditò questa sorta di leggerezza che le costò una reputazione e una disistima che afflissero la sua breve esistenza.
In questa sua mancata maturazione, grave responsabilità ebbe la madre, la seducente Teresa Pikler, che vide nella figlia, ugualmente affascinante e contesa, una pericolosa rivale nei confronti di Vincenzo che l'adorava, anche se poi, alla fine, prono ai voleri della moglie, l'abbandonò a se stessa. A conferma della violenta antipatia della madre, Costanza, in una pagina del suo diario scrisse: “Signore, dammi la forza di perdonare a questa donna crudele, dammi la grazia di amarla, ricorda alla snaturata che mi perseguita ch’ella mi è madre, apri gli occhi all’accecato mio padre …”.
Il padre, infatti, si fece complice, ancora una volta per la sua mancanza di determinazione, nel mandare a monte il matrimonio di Costanza con un giovane patriota greco Andrea Mustoxidi, idealista squattrinato che aveva fatto vivere alla ragazza quel sogno romantico che la madre aveva ferocemente osteggiato per ragioni di prestigio sociale.
Così, la scelta dei genitori cadde su Giulio Perticari da Savignano, filologo fautore di un classicismo moderato e in cui la figlia di Monti trovò, edipicamente, gli stessi difetti del padre. Come Vincenzo, fu infatti attratto dagli ideali napoleonici e pare fosse anche affiliato a sette segrete, ma, dopo la Restaurazione, visse sempre nel timore di esser scoperto. Fu anche succube della sua famiglia, che non vedeva di buon occhio il matrimonio con una donna che portava tanta fama paterna, ma poca dote.
Nonostante le lettere appassionate che i due “promessi” si erano scambiati, i loro rapporti si raffreddarono presto, anche per la scoperta della tresca del marito con una bella popolana da cui ebbe un figlio, e Costanza - dagli occhi penetranti, la carnagione lattea e le forme prorompenti, come descritta e ritratta dai contemporanei - cominciò ad esibire quel carattere apparentemente frivolo e invitante nei confronti dei numerosi corteggiatori, che favorì la diffusione di voci maligne nella Pesaro dove i Perticari vivevano. Forse, quel grande amore che le era stato proibito dai genitori, l’aveva spinta a una sorta di scettica rivalsa nei confronti del suo interessato e fedifrago marito e dei suoi presunti amanti, tanto da giungere a questa sua sconsolata riflessione sull’amore, che “per le donne è solo un corso ininterrotto di sacrifici, per gli uomini, d’egoismo”.
La giovane e bella sposa, infatti, intratteneva rapporti epistolari molto affettuosi con amici del marito e una volta che Rossini fu ospite della loro villa, volle avvoltolarsi nelle lenzuola ancora calde del corpo del compositore, facendogli poi commentare che non aveva mai conosciuto donna più “bizzarra”. Non si saprà mai se a queste esibizionistiche “bizzarrie” seguirono, con i vari pretendenti, rapporti più intimi, sta di fatto che i fratelli di Giulio ne approfittarono per creare, nei confronti della cognata, una rete di discredito che le fu fatale.
Quando poi Il Perticai si ammalò di un morbo non bene identificato, che lo portò a un progressivo indebolimento e poi alla morte nel 1822, si mise in giro la voce che era stato avvelenato dalla moglie, che nella sua colpevole sventatezza, non l'aveva assistito costantemente nel corso della lunga malattia. Quindi, diseredata dai Perticari e accolta freddamente a Milano a casa dei genitori, che la costrinsero persino a pagare la pigione, si rifugiò a Ferrara presso quel convento delle Orsoline dove aveva studiato, dove ebbe la carità di un posto di insegnante e dove morì col solo affetto di un cugino che l'aveva sempre segretamente amata.
Di profonda cultura – lo stesso Stendhal ebbe a dire che “elle sait le latin mieux que moi” – ma sottovalutata, in quanto donna, nella sua produzione lirica e assorbita per tutta la vita a curare filologicamente e a pubblicare gli scritti di padre e marito, di lei si ricorda un grazioso poemetto del 1817: L’origine della rosa, il cui incipit è; “Ben fur ciechi del lume della mente / Quanti preser col Cielo empia contesa / Né sepper come certo; alto, possente/ Di lassù è il giudicio, e come pesa, /Ond’ei fra il pianto della morta gente / Bestemmian or la disperata impresa, / O fan qui degli Dei fede alla forza, / Mutati in belve od in arborea scorza / …”.