“L’arte propone sempre una differenza, uno scarto, rispetto al mondo come lo conosciamo”
(Intervista a Giorgio de Finis, nuovo direttore del Macro)
Non so quanti, tra i nostri lettori - e, più ampiamente, tra cittadini e cittadine d’Italia - condividano con me la sensazione d’essere intrappolati in un deja-vu. Una sorta di ‘gabbia’ dove, per un verso, tutto si ripete uguale a se stesso (sebbene, marxianamente, “la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”...), e dove però la ‘gabbia’ si rivela essere a sua volta frazionata in numerose sotto-gabbie, all’interno delle quali ci si autorinchiude tra simili. E queste gabbie funzionano come innumerevoli ‘echo chamber’, in cui ciascuno sente rafforzata le propria opinione, poiché si è appunto circondato di persone che la condividono. Una sorta di nuova era dell’incomunicabilità - un paradosso, nell’epoca della estrema pervasività della comunicazione, della sua multimedialità. E che, a differenza di quella descritta dal cinema di Antonioni (che era difficoltà di esprimere il riverbero su di sé d’un malessere sociale), racconta d’una incapacità di ascolto, di rifiuto pregiudiziale della diversità - comunque declinata.
SIamo una società conservatrice, non solo perché la popolazione è sempre più anziana, ma perché sempre più si chiudono le finestre di opportunità. E senza opportunità non c’è progettualità, non c’è speranza. Quelli che appaiono oggi come i propositi di cambiamento più radicale, non sono che l’idea (l’illusione?) di un ritorno a un passato ‘aureo’ - e che come accade sempre al passato, è tale quasi sempre soltanto nella nostra ‘nostalgia’. Il mondo come lo conosciamo ci inqiueta, ci spaventa; ma non riusciamo a immaginarne uno nuovo. Soltanto a rimpiangere il vecchio.
Siamo intrappolati in questo ‘loop’, tra un presente sempre più incerto e un passato sempre più rimpianto. E in cui tutto, appunto, è sempre sostanzialmente uguale.
Uscire da questo immobilismo, rompere la gabbia del deja-vu, non per tornare indietro ma per andare avanti, è ciò di cui abbiamo bisogno. Servono energie nuove, ed è necessario ‘liberarle’. E se a ciò non sa provvedere la Politica, vi provveda l’Arte. Facciamo sì che entri sempre più nelle nostre vite, nella vita delle nostre città. Che le impregni, con la sua carica dissacratoria, sovvertitrice. Che ci mostri altri mondi possibili. Che accenda l’immaginazione. E se non riusciamo a trovarne abbastanza (ma può mai, la Bellezza, essere bastante?), andiamocela a cercare, nei luoghi ove dimora, e inventiamone di nuova. Riappropriamocene, in ogni senso.
Abbiamo più bisogno d’arte e di bellezza, che non di ‘fiscal compact’. Di musei, che non di banche. Di luoghi aperti, piuttosto che di spazi chiusi. Rompere i recinti, sia la parola d’ordine. Scompaginare l’esistente - non soltanto la sua superficie. Bisogna che tutto cambi davvero, e non perché tutto rimanga come prima.
A cinquant’anni dal ‘68, se proprio non è (ancora) possibile portare l’immaginazione al potere, cerchiamo almeno di ridare al potere un po’ d’immaginazione.