La manifestazione della creazione è espressione di un infinito e variegato dispiegamento di forze. La disseminazione divina non conosce confini. Per avvicinarci alla comprensione di questa visione ci può essere di aiuto addentrarci cautamente in quel complesso corpus di conoscenze conosciuto come tantrismo.
È arduo definire il tantrismo. Tra i molteplici significati del termine tantra (dalla radice tan “estendere, continuare, moltiplicare”) uno sopra tutto ci interessa: quello di successione, svolgimento, processo continuo. Il tantra sarebbe “ciò che estende la conoscenza”. (Mircea Eliade)
La lettera Ta è il seme (suono) dell’ottusità (staticità) e il verbo radice Trae (suffissato da Da) diventa Tra che significa ciò che libera, così, quella pratica spirituale che libera l’aspirante dall’ottusità o dall’animalità della forza statica e espande il sé spirituale dell’aspirante è il tantra sadhana. (Sri Anandamurti)
Il ricercatore tantrico esplora le vie per connettersi con la presenza onnipervadente delle immense energie creatrici. Alcune di queste energie le ha definite shakti e sono rappresentate attraverso degli strumenti meditativi noti come yantra o mandala (geometrie mistiche), suoni e vibrazioni mantriche, gesti (mudra) o raffigurazioni antropomorfe (murti).
Il principio chiave del tantra risiede nel fatto che l’universo che noi sperimentiamo sia la concreta manifestazione dell’energia divina che lo crea e lo mantiene: le pratiche tantriche cercano di contattare e incanalare quell’energia all’interno del microcosmo umano. (D. Gordon White)
Per le esperienze degli antichi maestri, suono e forma erano la stessa manifestazione di una unica energia, di una completa espressione creativa. Il neofita, il non iniziato, come la persona “normale”, distratta e inconsapevole, coglie queste manifestazione creatrici, separatamente, come mute forme simboliche o come suoni, semplici vibrazioni sonore. Per questa ragione uno yantra (o come li definiva l’orientalista Tucci, psicocosmogrammi) è sempre accompagnato da un mantra e dal suo mudra corrispondente e dal collegamento con la forza manifestata nell’universo, la shakti, l’aspetto divino, creativo, cioè, la divinità.
Per la mente dell’uomo moderno, desacralizzata e iconoclasta, tutto questo e, in particolar modo il concetto delle divinità, è pura espressione di cristallizzati aspetti religiosi, di politeismo folkloristico del panteon induista. Come un raggio di luce si scompone in sfumature diverse di colore, dove ogni colore separato e definito, è sempre parte e origine della luce bianca, così tutto quello che ci circonda ha un suo collegamento sottile e nascosto. Così era stata “vista” la creazione dagli antichi maestri, come un'esplosione di diverse energie, forze, manifestazioni sottili invisibili, ma concrete e inseparabili. Non stiamo scoprendo l’esistenza di numerose particelle subatomiche (e quante ancora sconosciute), non stiamo vivendo ancora adesso la spinta della creazione dell’universo? Non abbiamo in noi gli stessi atomi delle galassie?
Quelli che noi immaginiamo come aspetti del divino sono essenzialmente i prototipi più o meno astratti della poliedricità del manifesto. Per i caratteri che li contraddistinguono, questi prototipi costituiscono i modelli in base i quali sono plasmati a loro immagine le sfaccettature della realtà sensibile. Perciò ogni aspetto divino sembra possedere affinità con forme colori, piante, animali, parti del corpo, energie vitali, costellazioni, suoni, ritmi, momenti particolari dei cicli del giorno, dell’anno, degli eoni e così via. (Alain Danielou)
Tutto è una scala musicale, cromatica, vibrazionale immensa. L’essere umano sa percepire solo una piccola parte di questa tastiera cosmica: la sua incapacità e limitazione sensoriale è superata con gli strumenti tecnologici, frutto della sua intelligenza o con una visione sottile derivante da una coscienza espansa; solo così può cogliere una parte delle infinite connessioni cosmiche esistenti. Il tantra invita a portare il sacro in modo spontaneo nella vita di tutti i giorni: con il rito si cerca di ricavare uno spazio sacro nella vita ordinaria, materiale. La vita stessa è concepita come un rito. La natura stessa è una continua celebrazione rituale. Un fiore, espressione meravigliosa della natura, ha una sua personalità, un suo profumo, caratteristiche uniche e inconfondibili che lo rendono insostituibile nei rituali, nei gesti sacralizzati, nelle offerte devozionali e nelle relazioni umane.
Una energia divina/shakti e l’offerta di un fiore sono così unite nel rito. Il fiore è una espressione elevata del mondo della natura. Ogni cultura ha sempre collegato un fiore o una pianta a un aspetto del divino, tanto da esserne simbolo e raffigurazione condensata ed esplicita. Pensiamo come una rosa esprime e concentri i numerosi attributi della figura di Maria di Nazareth, così per Atena e Afrodite, fiore a loro un tempo consacrato. Nel culto, gli dei hanno la loro preferenza, il signore Shiva, che è anche il dio dell’ebbrezza, della follia, con la pianta della Datura - Datura stramonium - (i semi scuri di questa pianta sono allucinogeni e procurano seri danni cerebrali), il suo fiore bianco appartiene a Parvati, la sua compagna. Il fiore rosso dell’Ibisco - Hibiscus rosa-sinensis - è amato dalla dea Kali, offerto nella oblazione del dio solare o da alcuni devoti a Ganesha. Il delizioso fiore del Gelsomino è gradito a tutte le divinità, ma in particolar modo al dio del fuoco Agni. L’aroma del fiore Champa è l’essenza profumata della dea Lakshmi.
Potremmo delineare, così, un lungo elenco di una botanica sacra che attraversa tempi e luoghi di ogni parte del pianeta.
Continua il 23 Gennaio.