“Probabilmente noi (psicoanalisti) e lui (poeta) attingiamo alle stesse fonti, lavoriamo sopra lo stesso oggetto, ciascuno di noi con un metodo diverso… Il nostro procedimento consiste nell’osservazione cosciente di processi psichici in altre persone, allo scopo di individuare e formulare le loro leggi. Il poeta certo procede in modo diverso: rivolge l’attenzione all’inconscio nella propria psiche, spia le sue possibilità di sviluppo e ne dà un’espressione artistica …
... (il poeta) è sempre stato il precursore della scienza e anche della psicologia scientifica”.
Questo scrive Freud.
Infatti, se il sogno fonda la base della psicoanalisi e della sua teoria della mente, esso è anche all’origine dell’immagine mentale che darà luogo alla creazione artistica, a quella cinematografica, a quella pittorica e letteraria. Alla poesia.
Sulla stessa lunghezza d’onda si trova Georg Groddeck quando definisce Pierino Porcospino di Heinrich Hoffmann il Cantico dei Cantici dell’inconscio per adulti. Pierino Porcospino consiste in 10 filastrocche, in realtà una sorta di brevi racconti in poesia che il medico psichiatra di Francoforte aveva scritto e disegnato per i suoi bambini per parlare a loro di loro stessi, mostrandoli con le loro difficoltà o monellerie e le relative infauste conseguenze, con l’intento di farsi ascoltare davvero e di poterli educare divertendoli, in un clima, perciò, di positività emozionale.
D’altra parte, Hoffmann, psichiatra ed esperto anche di bambini problematici, vittime di traumi precoci, sapeva bene che più che divieti o imposizioni, che spesso risuonano come parole lontane, quasi rumori disturbanti che bisogna allontanare, i bambini sono toccati dalle immagini, immagini narrate o disegnate, perché si verifica una possibilità di identificazione col personaggio e con le sue avventure, il bambino ne è solleticato e sollecitato, perché vede i suoi difetti, le sue monellerie, le sue cattiverie rappresentate in maniera per lui accettabile, perché espresse dal racconto poetico che prende vita nella filastrocca.
Si verifica, infatti, un rispecchiamento che non lo fa sentire solo nella cattiveria, col sentimento di essere quasi mostruoso, ma viene riconosciuta socialmente la sua manchevolezza perché non è soltanto sua, ma appartiene anche ad altri se addirittura viene raccontata. Oltre tutto, essendo messa in racconto significa che può essere pensata, perciò contenuta dalla parola e non ricade sul bambino come una macchia indelebile, quell’onta che lo rende diverso e inaccettabile, ma tramite la funzione contenitiva della narrazione, può essere bonificata e trasformata.
La filastrocca narrativa funge da specchio da cui il bambino è attratto perché si riconosce, il messaggio gli arriva e lo tocca facendolo sorridere o addirittura ridere, non ha più bisogno di difendersi con la chiusura o con l’evitamento, ma si rende disponibile al pensiero e alla riflessione. Si diverte nel rispecchiamento perché si ritrova, “sono io”!.
Come la metafora che allude senza ledere, anche la storia lo racconta senza umiliarlo, ma gli offre, tramite il giocare con le parole, l’opportunità di pensare e pensarsi anche con la possibilità di modificarsi, partendo da un pensare in proprio, da un pensiero su di sé che lo muove attivamente, sentendosi soggetto dei suoi comportamenti e dei suoi cambiamenti.
Le Storie che finiscono male di Donatella Bisutti si ispirano a Pierino Porcospino, ma qui i racconti sono calati nelle problematiche che affliggono la società odierna, per cui i disturbi del comportamento alimentare nelle sue forme di anoressia e bulimia, il narcisismo fragile ed esasperato, la difficoltà a rispettare le regole, il bullismo, le tossico-dipendenze, le idealità irrinunciabili sono tra le tematiche pesanti che si incontrano in queste storie, che però vengono raccontate in maniera leggera, ironica, quasi danzante, proprio per la musicalità del ritmo, dando voce in maniera tollerabile a problemi di notevole dolorosità. A rendere avvicinabili con minor paura e soggezione queste difficoltà è stata l’intuizione felice di far impersonare le storie da animali o vegetali, facilitando ancora di più l’identificazione e mostrando così l’autrice di aver particolare cura che la pelle mentale dei bambini non venga ustionata dagli argomenti davvero scottanti.
Per rendere omaggio al Pierino Porcospino di Hoffmann, Donatella Bisutti inizia la sua carrellata di racconti in rima con “Pallino Porcospino”, bambino che non dà ascolto alle sollecitazioni materne per tenersi pulito ma “Sporco più sporco di lui non c’è/più felice si sente un re”. In questi versi si sente davvero il piacere di impoltigliarsi, di godere di un’analità irrinunciabile, si percepisce qui la sensorialità appagata dell’essere nella cacca del bambino piccolissimo, cacca come parte morbida e tiepida, irrinunciabile di sé. Ma occorre crescere e lasciare i godimenti infantili altrimenti si rischia di restarne imbrigliati, infatti il nostro Pallino, nostalgico del tempo che fu, si appallottola goduriosamente nella pece, ma ahimè “Da quella rete che lo imprigiona/per quanto faccia Pallino non esce/tutto ravvolto di fili e pece/adesso a muoversi più non riesce”. Dal piacere dello sporco ecco adesso lo spavento del sentirsi imprigionato e incapace di liberarsi, non solo con la vergogna dello spregio dei fratelli che “di lui beffe si faranno/e, puliti e cattivi/invece di aiutarlo rideranno”, ma quello che brucia è sottolineare la sua difficoltà a diventare grande, lo scherno è l’essere ridicolizzato perché ancora irrimediabilmente infantile.
E che dire della “Gatta riccia” “gatta grassa e mangiona/sempre sdraiata tra letto e poltrona … ora la pancia per terra strisciava … La padrona esasperata/un dì perse la pazienza//chiuse a chiave la credenza”. E allora la gatta golosona disperata entrò nel frigo “ma si richiuse di colpo la porta/e quando il frigo fu riaperto/congelata gatta Riccia/lì dentro era morta”. Davvero una storia truce, un horror in versi che può far rabbrividire, ma anche aiutare a ripensare alle conseguenze irreversibili dell’avidità e, probabilmente, al di là della voracità orale, possiamo anche intravedere un irrinunciabile bisogno di riempirsi di tutto quello che si vuole.
E poi incontriamo la vanità e la sventatezza con Margherita Rita scioccherella che, tutta presa dal suo desiderio di volare alto, non riesce ad accorgersi dei pericoli in cui incorre fino a lasciarsi “deflorare” da dita incaute che le tolgono consistenza e identità, fino a che “Invano piansero le sorelle/ la margherita che aveva sognato/di volare come un uccello”.
Tante davvero le avventure infauste che incontriamo nelle Storie che finiscono male, dall’Emilio trifoglio divorato dall’orgoglio, alla Giraffa Genoveffa digiunatrice così assillata dalla linea che a furia di non mangiare “non si reggeva più sulle zampe/ma questo ancora non le bastava/il suo sedere l’ossessionava” finché un giorno con un fil di voce: “Così magra sono più bella, ebbe la forza di mormorare mentre spirava tra le braccia dell’elefante”, oppure la golosità di Beppe Leprotto che cadde riverso per il troppo mangiare, mentre il lombrico Cesarino “un giorno un’erba strana trovò nel suo giardino … vediamo un po’ com’è se uso quest’erba al posto del tabacco” ed estasiato ed eccitato dal fumo strano che portava colori e sensazioni insolite ha iniziato a percepire il mondo come strampalato, e si era talmente confuso che è naufragato nel vuoto sfracellandosi sul marciapiede senza rendersi conto di quello che succedeva: “traballa, barcolla Cesarino lombrico/pensa di evadere dal davanzale/ma ecco che lascia la presa e cade/senza capire quel che succede/giù si sfracella sul marciapiede”. Ma anche i 5 porcelli che non volevano far nulla, bulli, vendicativi, finiranno in comunità “costretti a lavorare. Credevano di poter dominare gli altri con la violenza ma adesso sono obbligati a fare una dura penitenza”, o la povera patata aspirante a diventare Miss che finirà “infilzata da coltello e forchetta ora giace tutta spellata/su un piatto di ceramica e fiori/messa a morte”.
Tante sono le storie e tutte con finali turpi, non lasciano scampo, se ne va della vita, si vede bene che feroci sono le punizioni o le brutte conseguenze se si persiste in un comportamento non adeguato.
Queste filastrocche stanno tra l’apologo, il mito, le Morality plays (rappresentazioni teatrali del periodo dei Tudor, forme di drammatizzazione a carattere didattico e religioso), hanno quindi spessore e allo stesso tempo leggerezza, e i personaggi che le abitano sono davvero toccanti perché rappresentano in maniera sottile il mondo interno di tutti noi, quel teatro intimo che spesso è infestato da personaggi/pensieri “selvatici”, indomabili che hanno bisogno di riconoscimento, di essere messi in immagini e collegati in narrazioni per poter trovare una significazione che li renda docili, fluidi, addomesticati, proprio nel senso etimologico del termine, cioè del trovar casa, trovare il proprio posto, del raggiungere così una pacificazione nell’intimo, aiutando a star meglio con se stessi.