La Pala di Piero, un arabesco raffinato e potente di codici linguistici. Abbiamo la lingua della politica, con le scelte mai casuali dei santi raffigurati, tutti di gradimento del Duca committente, la lingua dell’architettura, dipinta nel dipinto e all’origine trionfalmente irradiante a cornice del quadro nella cappella della Chiesa francescana di S. Donato di Urbino, mausoleo ducale (oggi: Chiesa di San Bernardino) dove era posta l’opera prima della “rapina” napoleonica, la lingua dell’Arte nei quattro angeli bizantini così metafisicamente irraggiungibili pur nella loro vicinanza, la lingua della Fede riassunta potentemente nell’uovo di struzzo e nella conchiglia, il codice variegato del vero, del presente vissuto, nei riflessi dell’armatura, nella prospettiva dell’elaborato tappeto, negli stessi visi abbronzati e nel Gesù bambino dormiente.
Il tutto trova il proprio centro di gravità semantico nella persona di Federico da Montelfeltro, che con questa opera ringrazia la Madonna per la nascita di suo figlio e che con quest’opera presenta un proprio manifesto politico-etico-valoriale. I santi raffigurati sono o suoi amici, come Bernardino da Siena, suo confessore, oppure santi particolarmente venerati nei luoghi a lui cari: Urbino, la capitale del ducato, Gubbio, dove morì la moglie Battista Sforza, Arezzo patria di Piero della Francesca, di cui è patrono San Giovanni.
San Francesco d’Assisi perché il mausoleo ducale era chiesa francescana e San Pietro da Verona, martirizzato dai catari, per ribadire il ruolo di defensor Ecclesiae proprio del Duca quale “Gonfaloniere di Santa Romana Chiesa”. L’armonia della scena è consolidata dai due San Giovanni posti ai lati: Evangelista e Battista, le due porte solstiziali, e dal patrono degli umanisti, in cui si autoincludeva, non del tutto a torto, lo stesso committente: San Girolamo, qui nella classica postura da eremita del deserto che percuotendo il petto con una pietra la rende nel tempo liscia; allusione del tema biblico-vangelico del cuore che da cuore di pietra è chiamato a divenire “cuore di carne”!
Federico vuole quindi attorno a sé e a Gesù e Maria i santi che ama, i santi che hanno la pelle abbronzata come lui, perché sono pellegrini e viandanti, eremiti e predicatori, e quindi come lui, ex capitano di ventura, hanno abbronzata la pelle per gli anni passati all’aria aperta. Il bambino dorme profondamente, già allusione alla morte redentrice, quasi richiamata dal rosso del corallo che scende sul petto, anche se il corallo allora si utilizzava veramente, pensando che allontanasse le colichette ai neonati.
Il dipinto unisce il senso allusivo e misterioso proprio delle “Sacre Conversazioni” e delle icone orientali, modello recente introdotto in Italia da pochi anni dopo la sua emersione fiamminga, con l’espressività individuale propria del ritratto. La successione dei santi e degli angeli viene ritmata in una modulazione alternata, dove gli sguardi si incrociano. L’unità organica della rappresentazione, a rischio di caos figurativo per la sua innovatività e densità espressiva, viene rafforzata dall’alternanza cromatica freddo/caldo dei pannelli marmorei dello sfondo nelle analoghe sinergie “termocromatiche” delle figure.
Basti guardare alla pelle “bruciata” del Battista accostata al suo manto di una freddezza metallica come al rapporto tra il colore acceso del tappeto e del manto di Giovanni evangelista rispetto all’armatura del Duca e al bianco dell’architettura di sfondo. I due Giovanni presentano la stessa tunica verde. I loro manti alludono cromaticamente al sangue e all’acqua sparsi dal Cristo crocefisso. Regge simbolicamente la scena l’uovo di struzzo, emblema egizio e sapienziale di giustizia, presente nello studiolo di Federico in Palazzo Ducale come nei “Geroglifici di Orapollo”, ma pure segno cristiano di resurrezione.
I primi cristiani in Palestina appendevano uova di struzzo nelle Chiese, tanto che ne sono stati trovati frammenti pure tra le pareti della Santa Casa di Loreto, le cui pietre l’archeologia ha provato siano di origine palestinese, nazarita. La catena scende ferma e aurea, come quella di Zeus nell’Iliade. Il movimento qui è quello degli sguardi, è tutto interiore, si mostra appena solo in una leggera mistica brezza che leggermente muove le chiome dei luccicanti e coloratissimi angeli. Federico si auto-rivela quindi come uomo di lettere e amico dei santi più solitari e mistici, immerso in una visione meditativa e contemplativa potente ed elegante.
Quest’opera è un capolavoro. Lo si comprende meglio se la si confronta con l’apparente simile Madonna in trono con santi e la famiglia di Ludovico il Moro del “Maestro della Pala Sforzesca”, sempre alla Pinacoteca di Brera. Stesso il soggetto narrativo e l’occasione: la nascita di un figlio al Duca e il ringraziamento con i santi più cari, qui: Ambrogio, Gregorio, Girolamo (qui in versione cardinalizia) e Agostino. Due duchi, stesso periodo storico, due ex capitani di ventura, ma due opere assolutamente aliene tra di loro. Quest’ultima opera ricca a livello decorativo ed espressivo, sfarzosa, “lussureggiante”, ma non capolavoro come la Pala di Piero.
Il punto non tanto né solo il nome e l’identificazione dell’autore ma l’ergersi dell’opera al di sopra della convenzionalità di genere. La Pala Sforzesca è opera convenzionale quale opera di potere, di esibizione e celebrazione che il potere compie di se stesso, utilizzando l’immagine e il medium della Fede. Opera di alto livello, di pregio ma non “unica”, se non nella Madonna leonardiana assai virile. Una Madonna “virago”, che ricorda con i suoi occhi e le sue labbra gonfie l’intima collaborazione tra Leonardo e Boltraffio, e con un mano maschile che sembra ripresa dalla mano sinistra del Gesù del Cenacolo. Ma per il resto, tolto quest’aspetto erratico, bizzarro in quanto avulso dal contesto, l’opera resta un “condensato di figure”, senza quella profondità e originalità propria della Pala di Piero la quale invece riesce a sostanziare una visione spirituale e iconica autonoma e unica. Federico ci porta nel suo mondo simbolico e interiore, ci introduce in una forma universale che include il suo vissuto interiore. Ludovico resta silente in un cliché. La visione attecchisce impersonale, contingente.