Divampa la lotta nella piana di Troia. I guerrieri si scagliano furiosi gli uni addosso agli altri, instancabili incrociano le aste di bronzo nella mischia sanguinosa, ma è impari l'esito degli scontri e in un susseguirsi di rapidi duelli i Troiani cadono uno dopo l'altro sotto i colpi dei più valenti campioni degli Achei. Aiace è il primo ad avere la meglio sul suo avversario, poi Diomede con grida possenti uccide il docile Àssilo; di quest'ultimo Omero non dice che fosse eroico in battaglia, ne racconta invece l'indole pacifica, il suo essere “ben voluto” (v. 14 philos) dagli uomini, poiché a tutti egli “dava ospitalità” (v. 15 phileesken) nella sua casa lungo la via (una sottolineatura che acuisca la spietatezza di colui che ora gli toglie la vita? Un monito che richiami il suo crudele carnefice a quanto scritto anche nel suo passato? Una velata profezia di ciò che a breve inaspettatamente gli si rivelerà?). È lo stesso Diomede, peraltro, il più indomito, il più selvaggio degli Elleni, a rappresentare ora la minaccia più grande per i nemici; è dalla sua incontenibile foga che l'indovino Èleno domanda protezione alla dea Atena, apprestandole abbondanti sacrifici.
E, infatti, eccolo avanzare nuovamente nello spazio vuoto improvvisamente creatosi in mezzo ai due opposti schieramenti, pronto a dare ancora prova di sé, impaziente di affrontare un altro sfidante. E, come già prima, Omero gli pone di fronte come rivale un soldato dal ruolo assolutamente marginale nelle vicende belliche, uno che non si è in alcun modo distinto sul campo tanto che Diomede, pur non riuscendo a trattenersi dall'apostrofarlo con la boriosa arroganza di chi è da sempre avvezzo alla vittoria e allo stesso tempo ammirandone sinceramente la coraggiosa decisione di confrontarsi con la sua possente asta, nondimeno si vede costretto ad indagarne l'identità; un unico dubbio, infatti, è necessario fugare, di non avere di fronte una qualche divinità! Quando Atena gli era stata accanto, non si era fatto scrupolo di colpire neppure i numi immortali; con il favore della dea, persino Ares e Afrodite aveva inseguito, ma ora le cose non stanno più così, ora è necessario essere cauti.
Per tutta risposta, l'altro esordisce mostrando al contrario di conoscere molto bene chi sia il suo contendente - “Titide magnanimo!”, così lo chiama - e, senza mai pronunciare il proprio nome, lascia che sia la fulgida storia dei suoi avi a parlare per lui e a sciogliere ogni perplessità circa la sua natura mortale. L'atteggiamento controllato che mantiene durante il racconto, tuttavia, non sottende alcuna volontà provocatoria nei confronti di Diomede, non è sua intenzione umiliarlo; né la remissività che oppone alla fiera e combattiva esuberanza di quello può in alcun modo venire imputata alla lucida cognizione della propria inferiorità e alla certezza di essere inevitabilmente destinato a soccombere, una volta che entrambi abbiano imbracciato le armi. E' rivelando, piuttosto, una differente sapienza delle cose umane che Glauco (questo è il suo nome!) ottiene di smorzare a poco a poco la tensione. Proprio perché pienamente cosciente di non poter sfuggire all'irrevocabile transitorietà cui la natura ha voluto che tutto soggiacesse e dalla quale egli ammonisce a non distogliere lo sguardo (“Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini...nasce una, l'altra dilegua”), egli da un lato ribadisce ancor più fortemente la necessità di non rinunciare all'investitura di erede della gloria familiare ricevuta dal padre Ippoloco prima della partenza per Troia, di non sottrarsi al dovere di perpetuare la fama della propria illustre genia (alla quale, peraltro, dichiara con orgoglio di appartenere); dall'altro, segretamente saldo nella convinzione che la via capace di onorare degnamente il proprio nobile lignaggio non debba necessariamente correre lungo il filo tagliente di una spada, si adopera sottilmente per risvegliare anche nel suo interlocutore la stessa vigorosa consapevolezza, nell'attesa che sia lui a palesare quanto egli sceglie, invece, di non manifestare apertamente.
Tanto basta. Prima ancora di scendere dal carro, Diomede conficca la propria lancia nella terra e sorride, offrendosi imprudentemente inerme e vulnerabile ai potenziali attacchi dei nemici disposti tutt'intorno. Quel Bellerofonte, padre di Ippoloco, sul quale il discorso di Glauco ha volutamente tanto indugiato...quel Bellerofonte al quale la sorte aveva un tempo arriso più che ad altri colmandolo di ogni benedizione e con il quale poi era stata più crudele che con altri privandolo improvvisamente di ogni cosa...che da generazioni tutti celebravano per le sue eroiche imprese e che pure era approdato fuggitivo e ramingo in una terra che non era la sua, dove un re generoso gli “aveva dato asilo” (v. 176 xeinisse)...ebbene, quel Bellerofonte è colui che in passato Oineo, padre di suo padre Tideo, lungamente “aveva accolto” (v, 217 xeinise) nel suo palazzo e che ora gli impone di riconoscere in Glauco un suo “ospite ereditario ed antico” (v. 215 xeinos patroios palaios). Si vanta, Diomede, di questo legame indissolubile che viene da lontano e che esige di continuare ad essere tenuto vivo anche per i giorni a venire: un “ospite devoto” (v. 224 xeinos philos) sarà, dunque, egli per Glauco in Argolide, mentre Glauco lo sarà per lui nel paese dei Lici.
Lo spazio vuoto tra i due opposti schieramenti si trasforma così nel palcoscenico silenzioso sul quale il poeta a beneficio di tutti gli astanti inscena un inedito spettacolo. I due guerrieri balzano giù dai loro cavalli e si avvicinano l'uno all'altro fino a stringersi la mano, la stessa che fino a qualche minuto prima speravano avrebbe inferto i fendenti più efficaci e che diviene ora strumento del contatto più intimo e privato. Infine, dopo essersene spogliati, si fanno omaggio delle rispettive armi, contravvenendo alla norma che le consacra uniche e inalienabili, infallibili segni di riconoscimento di chi le porta...fatale sarà per il giovane Patroclo l'aver scioccamente indossato quelle di Achille! Ma Glauco e Diomede non temono di confondersi l'un l'altro; l'intercambiabilità dei loro armamenti si fa simbolo dell'intercambiabilità delle loro persone in quel contratto di xenia che imponeva a chiunque di dare assistenza e protezione al viandante straniero che bussasse bisognoso alla sua porta, che stringeva indissolubilmente “accogliente” ed “accolto” in un patto eterno di reciproca fedeltà, che non poteva venir disatteso senza che l'ira di Zeus in persona si scatenasse furiosa. L'atto di scambiarsi la loro unica risorsa di salvezza rappresenta, dunque, per i due soldati l'inconfutabile pegno di una tregua inviolabile ed esprime la rinnovata promessa di quell'antico accordo che già i loro antenati avevano stretto, offrendosi a loro volta quegli “splendidi doni ospitali” (v. 218 xeineia kala) di cui lo stesso Diomede conserva il ricordo.
Terminata la loro performance e liberata la scena, i due si ricongiungono ai loro compagni. Eppure, mentre si chiude il sipario sul loro incontro e riprendono le ostilità tra Achei e Troiani, resta la sensazione di aver assistito a qualcosa di davvero straordinario, che solo in apparenza è parso contraddire il rigido codice di comportamento cui ogni eroe era tenuto ad aderire e la cui piena accettazione prevedeva, invece, proprio la tutela di quella complessa rete di alleanze e amicizie di cui le grandi famiglie aristocratiche di generazione in generazione si tramandavano precisa e preziosa memoria; che in un mondo nel quale l'unica garanzia per l'individuo era rappresentata dal solido intreccio delle relazioni familiari e personali ha mostrato come la fedeltà al proprio genos e l'obbedienza ai doveri che ne conseguivano potessero essere addirittura più saldi e radicati dell'appartenenza ad un esercito o della partecipazione ad un evento bellico, per quanto epocale esso fosse; che ha saputo illuminare di una luce tutta speciale quella piana antistante la città di Troia facendo tacere - seppur brevemente - il clamore della guerra, in quel tempo misterioso in bilico tra storia e leggenda nel quale l'uomo ancora non aveva dimenticato come a volte bastasse rivolgere all'altro uno sguardo diverso per riuscire a neutralizzare quanto di ostile da esso poteva venire.