Questa volta parliamo di droga. Di traffici di droga. Quelli internazionali, in grande stile, che trasferiscono tonnellate di eroina, ma soprattutto cocaina, da un continente all’altro, che trasferiscono, ed è quello che più ci interessa, anche immense quantità di denaro liquido dai consumatori ai fornitori, ai trafficanti, ai distributori. Ai trafficanti soprattutto, ma non a quelli che appaiono in fotografia ogni volta che si conclude un’operazione investigativa o giudiziaria. A quelli che non vedremo mai sui giornali, che non saranno mai colpiti da misure cautelari, che stanno al sicuro all’ombra di banche e istituzioni di vario genere, che si occupano solamente degli aspetti finanziari delle transazioni, dei pagamenti, della collocazione dei proventi sul mercato globale.
Ne parleremo in maniera diversa, quindi, da come la raccontano le cronache giudiziarie, perché vogliamo guardare lontano, al di là del presente. Perché, a sentire le cronache, si passerebbe di vittoria in vittoria per lo Stato, di sconfitta in sconfitta per i trafficanti. Mentre invece non è così, purtroppo, perché i traffici proseguono, aumenta la domanda, aumenta l’offerta, nuovi profitti si aggiungono a quelli già incassati e…nuove operazioni di polizia si susseguono in tutto il mondo, accompagnate dalla consueta enfasi mediatica. Basti pensare che il volume d’affari annuale dei traffici di droga a livello globale, si aggira intorno a settecento miliardi di dollari, cifra che supera quella di qualsiasi altra merce prodotta e commerciata nel mondo.
A questo punto, è doveroso aprire una parentesi. Sia chiaro che non c’è alcuna valutazione critica nell’operato degli apparati investigativi e giudiziari che si occupano di tale tipo di reati. Tutt’altro. Le considerazioni che seguono danno per scontato che, almeno in Italia, tutto quello che si poteva e doveva fare è stato fatto, e spesso in maniera egregia. La lunga esperienza operativa in materia ha consentito l’acquisizione di competenze tecniche, professionali, in capo agli organi di polizia, magistrati requirenti e giudicanti, che è difficile rinvenire altrove, in Europa. Metodologie investigative raffinate, uso della tecnologia più avanzata, conoscenza dei canali di rifornimento e di distribuzione, pazienza e determinazione, competenza e cooperazione internazionale, tutto questo fa parte della realtà investigativa di tutti i giorni con punte di eccellenza che sono sotto gli occhi di tutti. E infatti non è di questo che si intende parlare. In discussione c’è la strategia, non la tattica. Quali risultati nel medio e lungo periodo c’è da attendersi dal tipo di contrasto sinora condotto? Quali concrete prospettive vi sono perché si possa arrivare ad una significativa contrazione del traffico e del consumo di sostanze stupefacenti? Nessuno azzarda valutazioni di questo genere, perché sono impossibili. Tutti sanno che le previsioni vanno in senso opposto. Forse è giunto il momento di pensare a strategie alternative, senza pregiudizi e con la necessaria lucidità.
Il punto centrale del problema è costituito dal proibizionismo che vige praticamente in tutto il mondo nel settore delle sostanze stupefacenti. È noto che in questa materia una tale opzione non attiene a criteri di tipo sanitario, perché se così fosse esso dovrebbe essere esteso a tutte le altre sostanze che provocano danni alla salute, come alcool, tabacco, e altre ancora. Attiene invece a ciò che in un determinato periodo storico viene ritenuto giusto o sbagliato, sulla base di criteri di ordine morale e politico, con la conseguente traduzione in termini giuridici di ciò che è lecito e di ciò che è illecito. E, infatti, solo nel Novecento gli Stati hanno iniziato a considerare “inaccettabile” moralmente, e quindi illecito, l’uso di sostanze stupefacenti (per non parlare della infelice esperienza del proibizionismo alcolico negli Stati Uniti degli anni ’30), con l’adozione di leggi repressive, sempre più severe, per contrastarne diffusione e consumo.
Non ci soffermiamo sulle motivazioni che hanno determinato l’adozione di simili orientamenti politici e legislativi, peraltro largamente condivisi dall’opinione pubblica internazionale, anche se, paradossalmente, la condivisione ideologica del proibizionismo non ha impedito la crescente diffusione del consumo di droghe anche tra i cosiddetti “benpensanti” e non solo tra gli emarginati e i derelitti della società. Il proibizionismo, anche questo è noto, è di per sé criminogeno, cioè stimola la trasgressione del divieto, sia sul versante della domanda che su quello dell’offerta. Non solo: esso genera effetti collaterali, estremamente pericolosi: la moltiplicazione delle sostanze stupefacenti offerte sul mercato al fine di diversificare l’offerta e intercettare in tal modo il maggior numero possibile di consumatori in cerca di novità; il taglio delle droghe con sostanze spesso nocive, anch’esso finalizzato all’aumento indiscriminato dei profitti.
Una prima conclusione: l’avvento del proibizionismo lungi dal contrastare il consumo di droghe ne ha registrato un fortissimo aumento, destinato ad accrescersi ulteriormente con l’apertura di nuovi immensi bacini di utenza. Collateralmente sono aumentati i profitti, che oggi rappresentano oltre il 60% di quelli complessivamente realizzati dalle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico. Sono aumentati i reati ad esso connessi, le polizie lavorano alacremente, aumentano i processi, le condanne, e la popolazione carceraria è oggi composta largamente da condannati per spaccio e detenzione di droga. Tanto più si inasprisce la politica repressiva, sotto il profilo normativo e giudiziario, quanto più fioriscono i traffici, crescono i consumi, si incrementano i profitti. Le finalità che avevano determinato l’adozione di tale strumento sono sostanzialmente fallite.
Ulteriore effetto collaterale di grande rilievo: i traffici di droga richiedono attività complesse, collegamenti internazionali con i fornitori, predisposizione di mezzi di trasporto, individuazione di centri di stoccaggio e di smistamento, laboratori, reti di distribuzione, per non parlare delle attività, altrettanto e forse ancor più complesse, per la predisposizione dei mezzi di pagamento, per l’occultamento e il reimpiego dei profitti. In sostanza, non è attività che può essere gestita da singoli o piccoli gruppi, ma da grandi organizzazioni criminali con proiezioni internazionali: le mafie appunto, quelle italiane certo, con la ‘ndrangheta in testa a tutte, e molte altre ancora, tra le quali la mafia russa, quelle asiatiche, quelle sudamericane, adesso anche quelle jihadiste.
Tutte hanno dovuto, per tali necessità, modificare i loro assetti organizzativi, acquisire nuove capacità operative, nuovi collegamenti criminali e non solo, mettere in moto meccanismi corruttivi negli apparati investigativi, nel sistema finanziario e bancario, per superare ostacoli alle frontiere, stabilire contatti con trafficanti di armi, gruppi terroristici, politici locali, servizi segreti, polizie, interi governi. Nel suo ultimo romanzo “Corruzione”, lo scrittore Don Windslow ha offerto un quadro impietoso e devastante dei livelli di corruzione della polizia di New York, apparentemente impegnata nel contrasto alle bande di trafficanti di droga. Le mafie sono state “costrette” a crescere in dimensioni, potenza economica e militare, a perfezionare le strutture organizzative interne, a misurarsi con altre mafie, altri poteri, così creando inedite sinergie operative e finanziarie. In tal modo si sono rafforzate, hanno esteso la loro attività e riciclano gli enormi profitti nella finanza internazionale. Inutile sotto il profilo del contrasto al consumo delle droghe, disastroso sotto il profilo del contrasto alle mafie: questo è il proibizionismo. In più: diminuisce il disfavore sociale verso le droghe, segnatamente cocaina, ecstasy, che sono entrate a far parte delle abitudini di vasti settori della popolazione.
Ma i benefici effetti collaterali del proibizionismo non sono ancora finiti: l’enorme patrimonio accumulato (il 60% di 180 miliardi di euro all’anno, secondo il rapporto Eurispes 2011) è servito alle mafie per conquistare non solo il ruolo di protagonista nell’economia nazionale, ma anche per farsi soggetto politico, con propri rappresentanti nei consigli comunali, regionali e persino in parlamento) e di condizionare da tali posizioni mezzi di informazione, settori delle istituzioni e della pubblica amministrazione.
Stiamo esagerando? State a sentire cosa disse nel 2008 il direttore dell’UNODOC, l’italiano Antonio Maria Costa, in occasione della presentazione del rapporto annuale, in un’intervista pubblicata sul settimanale austriaco Profil: "Il traffico di droga a questo punto potrebbe essere l'unica industria in espansione, con poca o zero disoccupazione. I proventi vengono reinvestiti solo parzialmente in attività illecite", "Il resto del denaro viene immesso nell'economia legale con il riciclaggio. Non sappiamo quanto, ma il volume è impressionante. Come tale, visto dagli effetti macroeconomici, ciò significa introdurre capitale da investimento. Ci sono indicazioni che questi fondi sono anche finiti nel settore finanziario, (…) Sembra che i crediti interbancari siano stati finanziati da denaro che proviene dal traffico della droga e da altre attività illecite".
In molti casi, ha continuato Costa, "i proventi della droga sono l'unico capitale liquido con cui comprare, ad esempio, proprietà immobiliari. Nella seconda metà del 2008, la liquidità era il principale problema del sistema bancario e perciò, questo capitale liquido è diventato un fattore importante". "Oggi, la crisi finanziaria costituisce una straordinaria opportunità per una ulteriore penetrazione di istituzioni finanziarie in crisi di liquidità da parte della mafia: con la stretta creditizia delle banche, questi gruppi criminali ricchi di liquidità sono emersi come la sola fonte di credito". "Non solo i banchieri hanno creato strumenti finanziari mostruosi, le cui dimensioni, complessità e proprietà, nessuno riesce a comprendere o a calcolare. (…) Hanno permesso all'economia criminale di diventare parte dell'economia globale. I banchieri d'affari, i manager dei fondi, i traders commerciali e immobiliari – assieme ai certificatori, ai contabili e ai legali – hanno aiutato le mafie a riciclare i proventi del crimine e a diventare soci in affari".
L’analisi che precede non ha impedito al direttore dell’UNODOC di dichiararsi contrario a qualunque proposta di liberalizzazione della droga. E tuttavia non può ignorarsi che da lì a qualche mese la ‘ndrangheta venisse inserita dal governo degli Stati Uniti (siamo a giugno del 2008) tra le organizzazioni criminali più pericolose per la sicurezza del paese, per il ruolo di alleata dei cartelli messicani e che, nel 2009, Iuaquin Guzman, “El Chapo” detto anche il “corto”, re dei narcos messicani, compaia, sia pure al 701° posto, nella classifica degli uomini più ricchi del mondo, stilata da Forbes. Le rotte del traffico di cocaina, in molti casi hanno stravolto il volto di interi Stati sudamericani e africani, trasformandoli in “narcostati”, termine entrato nel linguaggio della geopolitica per denominare gli stati la cui economia è largamente narcodipendente, pur avendo formalmente aderito alla War on Drugs. Ai tradizionali Afghanistan, Colombia, Kossovo, si sono aggiunti il Messico, il Brasile, la Guinea, e l’intero continente subsahariano, attraverso il quale transitano i carichi di droga giunti dal Sud America con destinazione Mediterraneo, dove le mafie italiane, la turca, la russa e quelle caucasiche si incaricano di prelevarle e distribuirle in tutta Europa. È provato che sia Al Qaeda che l’ISIS provvedano al loro finanziamento trafficando anch’esse in droga (cui si aggiungono numerosi altri traffici illeciti, come quelli di armi, esseri umani, animali esotici morti e vivi, reperti archeologici, contrabbando di petrolio e molto altro ancora).
Concludendo, con i proventi del traffico le mafie italiane acquistano, pezzo dopo pezzo, settori della finanza e dell’economia nazionale e conquistano pezzi di potere politico ed istituzionale. Si può dire che, con il traffico di droga, hanno stipulato una vera e propria assicurazione sulla vita: sinché vigerà il proibizionismo, a dispetto di tutte le operazioni giudiziarie del mondo, godranno di lunga vita, di immense ricchezze e di enorme potere. È uno dei pilastri sui quali esse fondano la loro sopravvivenza; del secondo pilastro, altrettanto importante, avremo occasione di parlarne tra qualche numero.
Le analisi più ottimistiche concordano nel ritenere che le quantità di droga intercettate e sequestrano non superano il 10% di quelle trafficate, dunque risultati minimi conseguiti con grande dispendio di risorse umane e finanziarie. Il rapporto EUROPOL 2017 ha individuato più di 5.000 gruppi di criminalità organizzata operanti in Europa e, di essi, più di un terzo sono impegnati nella produzione, traffico e spaccio di droghe. Appena dieci anni fa questi numeri sarebbero apparsi impensabili, ma, parafrasando il linguaggio del film Quarto potere, diremo con Humphrey Bogart, “è la droga bellezza e tu non ci puoi fare niente”. La minaccia per le nostre democrazie è altissima, l’attenzione è riservata a pochi istituti di ricerca, ma i governi e i parlamenti si occupano di altro.