Gli artigiani dell'ombrello, con il loro girovagare, si sparpagliarono in numerose regioni dell’Italia del nord, in alcuni Stati europei e, spingendosi anche Oltreoceano, riuscirono a raggiungere le Americhe e l’Australia.
Alla fine del Settecento, povertà e mancanza di lavoro costrinsero anche la mano d’opera maschile dei piccoli comuni sparsi alle falde del Merguzzeu, il Mottarone, a cercare, seguendo istinto e propensione, varie opportunità economiche nelle pianure lombarde e piemontesi. Alcuni di loro, a seguito dell’incontro con ambulanti francesi di passaggio a Torino, appresero i primi rudimenti e, in seguito, si specializzarono nell’arte della costruzione e della riparazione del parasole, oggetto che vanta radici antiche e leggendarie. Egitto, India e Cina, infatti, si proclamano, con motivazioni diverse ma altrettanto valide, culla del curioso oggetto che, fin dal suo apparire, è stato collegato alle rappresentazioni del potere e da sempre utilizzato, durante cerimoniali e liturgie religiose, per proteggere non solo simbolicamente, i dignitari. Nonostante questa sua particolare valenza, scomparve misteriosamente durante i lunghi secoli medievali per riapparire molto più tardi ma con un’aura molto meno mistica.
Utilizzato dalle signore della nobiltà e dell'alta borghesia francese per conservare un incarnato pallido, come la consuetudine e lo spirito romantico del tempo imponevano, si impose definitivamente nella moda femminile dell’Ottocento come simbolo di lusso e seduzione. In seguito, come accadde anche per altri oggetti sostanzialmente superflui, divenne praticamente indispensabile. Ne furono quindi realizzati innumerevoli modelli via via sempre più ricercati, costosi e adatti alle più disparate circostanze, comprese quelle luttuose, in seta o altri tessuti preziosi con impugnature in avorio, madreperla, argento e radica. Ancora nei primi decenni del Novecento, l’ombrellino faceva la sua bella figura nel guardaroba delle signore dell’epoca. Non a caso, il primo manifesto pubblicitario della FIAT ritrae una elegante e giovane donna, a bordo di un’automobile, con l’inseparabile parasole.
Quando il suo impiego iniziò a regredire e il suo uso limitato alle località balneari e di villeggiatura, il lusciàt iniziò a occuparsi, con la stessa perizia, del parapioggia, simile per struttura e metodologia di fabbricazione.
Per svolgere il suo lavoro restava lontano da casa parecchi mesi, girovagando o al più fermandosi per qualche giorno nello stesso posto tra Torino, Milano, Roma, Bari e altre città del Veneto, della Liguria e della Campania, superando disagi, stenti di ogni genere, difficoltà nel capire e nel farsi comprendere. Arrivò fino ai confini dell’Europa e in terre ancor più lontane. Portava in giro la sua abilità. La riponeva insieme alla sua attrezzatura nell’inseparabile bargella, una sacca di cuoio o di legno a forma di faretra, che portava a tracolla e sulla quale si sedeva per eseguire le riparazioni. Nella rudimentale borsa insieme a pinze, filo di ferro, pezzi di stoffa, aghi, spaghi e altri svariati oggetti legati al mestiere e alla vita quotidiana, trovavano posto anche i ragozz, le caratteristiche stecche che compongono la struttura dell’ombrello. La sua patrona era Santa Barbara, la stessa invocata anche da minatori e artiglieri.
Sovente era accompagnato da un giovane di umili origini come lui, che, oltre a fargli un po’ di compagnia, lo aiutava nel lavoro e per contro imparava il mestiere. Il galup, l’apprendista, era generalmente reclutato tramite una sorta di ufficio di collocamento pubblico situato sulla piazza del piccolo comune di Carpugnino nel Verbano, dove ancor oggi una targa ricorda la triste usanza.
I lusciàt erano diffidenti e gelosi dei loro segreti. Per riconoscersi e condividere esperienze e trucchi del mestiere inventarono un loro gergo, il tarùsc, che arricchivano continuamente con termini presi dalle lingue dei Paesi che visitavano. Col passare del tempo, riuscirono a irrobustire la loro fama e a costituire una vera e propria corporazione alla quale, all’inizio del Novecento, aderivano complessivamente quasi duecento famiglie. Per alcuni di loro, i sacrifici furono ampiamente ricambiati. I più intraprendenti, i più bravi, i più fortunati riuscirono, infatti, ad aprire una bottega, ad avviare un negozio o addirittura creare a una fabbrica, acquisendo benessere e prestigio nella stessa comunità dalla quale, in giovane età, si erano dovuti allontanare in cerca di fortuna e alla quale, a fine carriera, avevano fatto ritorno.
Un erede di questa grande tradizione, ormai definitivamente scomparsa per l’avvento di sistemi di produzione industriali, Igino Ambrosini, figlio e fratello di ombrellai, ha fondato a Gignese, nel 1939, un allestimento espositivo unico al mondo nel suo genere, la cui moderna struttura, inevitabilmente a forma di ombrello, contrasta ad arte con gli antichi e preziosi modelli collezionati. Quasi duecento campioni sono visibili nelle vetrine al piano terreno e insieme a materiali di copertura, a svariate impugnature e innumerevoli minuterie, consentono di ripercorrere l'evoluzione della moda dall'Ottocento fino ai giorni nostri. Al piano superiore le testimonianze storiche sull'uso del parasole e del parapioggia, i figurini di moda e preziosi riferimenti dell'attività dei lusciàt che, di certo, non si sarebbero mai immaginati di ricevere un tributo così prestigioso e che si accontentavano di riuscire a destreggiarsi tra sole e pioggia.
Il Mottarone
In virtù della sua particolare posizione tra il Lago Maggiore e quello d'Orta, il Mottarone è conosciuto con l’appellativo di “Montagna dei due laghi". Sorge nel territorio del comune di Stresa, il fiore all’occhiello del Verbano Cusio Ossola, la provincia piemontese che confina a ovest e a nord con la Svizzera (Canton Ticino e Vallese), a est anche con la Lombardia, e a sud con le province di Novara e di Vercelli. Dalla sua vetta, curiosamente arrotondata e posta a 1.491 metri di altezza, si ammira un panorama mozzafiato che, in un contrasto cromatico da vertigine, permette di ammirare alcune tra le più rinomate meraviglie naturali piemontesi tra cui l’Ossola, il bacino del lago d’Orta, il massiccio del Monte Rosa, la vetta del Monviso, la catena montuosa delle Alpi Marittime, la Pianura Padana, il lago Maggiore e i “Sette Laghi" del Varesino. La sua cima è raggiungibile a piedi seguendo un tragitto, abbastanza impegnativo, di quattordici chilometri che si snoda da Stresa. In auto, invece, si percorre la strada che da Armeno corre lungo il versante sud o quella a pedaggio che sale da Alpino, frazione di Gignese, lungo la parete est. Infine, si può utilizzare la funivia che, dal 1963, ha sostituito la storica ferrovia a cremagliera e che dal Lido di Stresa, in un entusiasmante tragitto di circa venti minuti, raggiunge il pianoro nei pressi della vetta. Inoltre, dalla stazione intermedia di Alpino, dove è stato realizzato un giardino botanico di 12mila metri quadrati, si può proseguire a piedi e, in un paio d’ore, giungere alla sommità seguendo i numerosi sentieri segnalati.