Le prove
Quest'anno sono in ritardo. Cristina Mazzavillani Muti mi ha detto: "Vieni a trovarmi. Sono sempre chiusa qui a fare le prove". Poi accade che il tempo prenda il volo e trovi me impreparata a seguirlo. E mentre il mio corpo lì immobile perde tempo la mia mente se ne va, alta, distante, attraversa terre lontane e segue il passo mutevole della nuvole - il corpo immobile, la testa tra le nuvole, appunto.
Ma cos'è che mi spinge, in questi pomeriggi oscuri, a venire qui a teatro, appoggiare la bicicletta, suonare il campanello, dire al custode che sono un'amica della signora Cristina, sbagliare corridoio e finalmente in platea, di lato, al buio, sedermi? Credo di essere richiamata dal senso arcaico delle lontananze: il Teatro Bonci a Cesena, la passione per la lirica dei miei genitori. Devo essere nata in compagnia di una romanza, ma la mia creatività mi ha portata lontana da quel luogo primario e qui, in autunno, ritorno perché, qui, avviene una sorta di miracolo. Cristina prende ciò che è più antico e remoto e me lo porge rinnovato e ravvicinato: nelle sue mani rivive. In questo incontro con il teatro me ne sto a lato, so perfettamente di non farne parte.
Quello che m'incanta qui al buio è tutta l'atmosfera delle prove, tutto quello che prende forma. Il divenire con i suoi errori, i suoi mutamenti, le sue trasformazioni, non il compiuto. Non il teatro stracolmo di gente, no, la solitudine sospesa delle prove: io avvolta e protetta da poltroncine vuote che ascolto e vedo l'opera appena nata acquistare la sua specifica, fatale qualità. Il dopo - le prove - è dato agli altri da amare: preferisco il gesto dell'azione, il gesto del dono, ma anche dell'assalto. Preferisco quella strada lungo la quale l'opera esce da se stessa, lasciandosi continuamente indietro, inevitabilmente sorpassandosi. Superandosi in statura. L'essenziale proprietà che determina l'opera è la conseguenza del suo primo, libero respiro, il suo consenso a se stessa. È per questa via che ogni anno Cristina supera se stessa; la sua vitalità mi annichilisce. Con lei ritorno alla civiltà del dono.
Giovani energie per Ravenna Festival Cavalleria Rusticana e Pagliacci remix
Ieri, alla fine delle prove di Pagliacci, me ne stavo andando quando ho visto del movimento in scena. Dopo poco sono salite sul palco ragazze e ragazzi giovanissimi e hanno iniziato a recitare, a cantare a ballare "a loro modo". Stavano reinterpretando Pagliacci con nuovi punti di vista. Ecco le parole di Cristina: "Lo sguardo dei più giovani, privo com'è di preconcetti e di falsi pudori, ha la capacità di rivelare prospettive sorprendenti: se prestiamo loro ascolto convenzioni e convinzioni non possono che trasformarsi e rinnovarsi. Questa consapevolezza ha da sempre conferito alle mie produzioni un'atmosfera di laboratorio, dove le sperimentazioni alla regia, alle luci, ai video, al suono si sono accompagnate al desiderio di restituire il Teatro Alighieri, questo spazio magnifico e immaginifico che appartiene a tutti, anche ai più giovani, permettendo loro di farne esperienza e mettersi in gioco in prima persona".
Più che un laboratorio quella di Cristina è una fucina in atto. Nel gioco del tempo il destino ha consegnato nelle sue mani e nella sua anima il filo rosso della memoria che lei coniuga con l'esperienza del rischio aprendo il luogo "sacro" ai giovani. In questa fucina tutti lavorano con passione e rigore, con grande esperienza tecnica e poetica. Ecco alcune frasi di Cristina alla sua gente in quell'isola che è il teatro durante le prove:
"Vediamo prima cosa succede con una palla, una striscia, un nastro".
"Ho visto persone troppo per bene, qui dovete rappresentare la follia, scatenatevi!"
"Non pensare troppo".
"Siete tutti belli".
"Se sbagli una parola, non avere paura ce n'è subito un'altra".
"Ognuno faccia quello che sente".
"Tutti giù per terra".
"Ecco, alzati e vieni verso il pubblico, fai capire che è possibile un'altra vita".
Con queste e altre semplici parole, con una gentile e affettuosa autorevolezza che riconosco solo in lei, "tira fuori" il meglio da ciascuno. Le adolescenti piano piano smettono di sistemarsi i capelli, e di conversare tra di loro, di avere timore del palco, di danzare come ragazze troppo per bene e iniziano "...a lavorare tutti insieme...senza tradire la verità che ognuno porta con sé".
E ora desidero farmi testimone della fucina in atto di Cristina e di tutta la sua gente "svelando" il luogo, le date e le ragioni di tante passioni condivise.
Cavalleria rusticana, Pagliacci, Tosca: un manifesto del Verismo in tre capolavori conclude la XXVIII edizione di Ravenna Festival con un viaggio nel teatro in musica “sull’orlo del Novecento”. Dal 17 al 26 novembre la Trilogia d’Autunno impegnerà il Teatro Alighieri in un’appassionante maratona lirica che vedrà le tre opere alternarsi sul palcoscenico sera dopo sera. L’Alighieri si è trasformato in un’instancabile macchina produttiva, ma anche in vero e proprio laboratorio: palestra e trampolino per giovani interpreti, alcuni dei quali al proprio debutto nel ruolo, nonché luogo di sperimentazioni ad opera di un team affiatato - Cristina Mazzavillani Muti regia, Vincent Longuemare light design, David Loom visual design, Davide Broccoli video e Alessandro Lai costumi. Sul podio dell’Orchestra Giovanile Cherubini Vladimir Ovodok: il giovane direttore si è formato all’Italian Opera Academy di Riccardo Muti e guida l’Orchestra della Radiotelevisione Bielorussa.
Dal 2012 la Trilogia ha esteso il Festival oltre i tradizionali confini estivi con trittici d’opera che hanno reso omaggio a compositori simbolo quali Verdi e Puccini. I titoli proposti quest’anno hanno segnato il tramonto di un’epoca e l’alba di nuovi tempi: è infatti al termine dell’Ottocento che il melodramma italiano ritrova nuova linfa. Nel 1890 Mascagni conquista i teatri con l’immediatezza espressiva di Cavalleria rusticana, imponendo il verismo in musica, mentre due anni dopo Pagliacci di Leoncavallo trasfigura un fatto di cronaca nelle tinte fosche di una passionalità senza scampo: così la “parola scenica” esplode e dona nuova luce a una tradizione secolare. Quella stessa luce splende sull’eroismo tragico di Tosca, nella forza drammaturgica e nella raffinatezza della partitura con cui Puccini apre il secolo.
“Dopo tanto Verdi, l’approdo ai nuovi sviluppi dell’opera italiana, e a quella stagione talvolta incompresa e sottovalutata che è il Verismo, mi sembrava inevitabile. Cosa scegliere dunque? Intanto Cavalleria rusticana e Pagliacci, opere che tradizionalmente vengono affiancate in un’unica serata, ma che invece, inseguendo un antico sogno, ho voluto affrontare proprio per poterle separare, perché messe insieme si impoveriscono a vicenda... sono simili eppure tanto diverse: Cavalleria infallibile ma profondamente legata alla sua epoca, Pagliacci rivoluzionaria e proiettata nel futuro, sia per la struttura sia per l’assoluta perfezione con cui parola e musica si compenetrano – non è un caso che Leoncavallo letterato e musicista sia autore del libretto come della partitura. Tosca poi era inevitabile: debutta nei primi giorni del 1900 ed è il simbolo stesso del nuovo secolo, dove Puccini proietta l’immediatezza e il gesto fulmineo già illuminati da Mascagni e Leoncavallo: tutte e tre le vicende si svolgono nell’arco di una giornata, e in tutte e tre l’onda emozionale non si interrompe mai, lungo una tensione che conduce inevitabilmente al grido, alla lacerazione del grido. Ed è questo, credo, il segreto della straordinaria efficacia espressiva del verismo”.
È inevitabile che il progetto sia unitario, che le tre opere nascano in un certo senso come un’unica grande opera, tre diversi quadri disposti a comporre una sorta di “polittico” musicale. Ma, oltre al comune impianto scenico, quali sono i fili conduttori che le attraversano, pur nell’inconfondibile specificità di ciascuna?
Si tratta di tre opere che insieme formano un universo composito. Intanto i luoghi in cui le azioni, rapidissime, si consumano, e l’elemento sacro che li accomuna: come si è detto, la chiesa barocca che fa da sfondo alla festa pasquale in Cavalleria, e la chiesa romana di Sant’Andrea della Valle per il primo atto di Tosca, ma anche la pedana circolare del circo ove, in Pagliacci si consuma la tragedia, anch’essa a suo modo un “altare”, un luogo sacro in cui far sfilare l’umanità più dolente, dove si smarrisce il confine tra verità e finzione. Poi il rito liturgico: non c’è Tosca senza Te Deum, il canto di ringraziamento attorno cui si raccoglie il popolo e sul quale Scarpia pregusta le proprie nefandezze; e la processione di una Pasqua che in Cavalleria non è di resurrezione, ma diviene una Pasqua di morte, rito condiviso e collettivo, come la festa di mezz’agosto che in Pagliacci richiama tutti al circo, spettatori inconsapevoli di un tradimento e di un delitto che dalla finzione sfocia nella realtà. Ecco, ciò che veramente mette in relazione le tre vicende e le congiunge in un unico orizzonte è il “popolo”: quello che accorre alla messa di Pasqua e che poi si ferma ai tavoli di un’osteria, quello che intona il Te Deum all’ombra dei palazzi del potere e che nel giorno di festa si accalca per assistere allo spettacolo del circo... fino a quello che siede in sala, il pubblico, a propria volta testimone del rito che si consuma sul palcoscenico.
Al di là dell’impianto visivo, c’è il lavoro con gli interpreti, con i cantanti, coloro che danno voce e gesti e fisicità ai personaggi: cos’è che guida il suo rapporto con loro, nella ricerca di una verità scenica e interpretativa?
Credo che per ottenere qualcosa che abbia a che vedere con la verità sia necessario cercare di “tirar fuori” il meglio da ciascuno: non si tratta di comandare ma di riconoscere i semi che si hanno a disposizione, di metterli assieme e di aiutarli a fiorire. “Fammi capire chi sei”, “fammi rubare il meglio che hai”: è questo che chiedo agli interpreti, che devono sentirsi liberi di esprimere se stessi e, soprattutto nel caso dei più giovani, di ascoltare quel qualcosa di sacro che vibra dentro di loro e che li ha portati a scegliere questo mestiere, e che nessuno ha il diritto di violare o confondere. Aiutare ognuno a sviluppare la propria identità, questo credo si debba fare. E lavorare tutti insieme, per raggiungere lo stesso scopo, senza tradire la verità che ognuno porta con sé. È in questo senso che mi sento regista; e un po’ psicologa anche.