A pelo d’acqua scorgiamo un orizzonte, un’ipotesi leggera, e ci accorgiamo di rileggere la realtà in maniera sussurrata, senza pretese, la traccia di un’umanità in punta di piedi, labile, fragile, irrisolta ma scientificamente certa e complessa. Tutto questo irrompe nella poetica di Eva Marisaldi, classe 1966, da sempre un artista che con semplicità indaga la complessità. Paradosso?
Potrebbe trattarsi di una paradosso, ma in realtà cosa c’è di più paradossale della stessa esistenza umana? Surround, la mostra che la Galleria De’ Foscherari propone nel cuore di Bologna, è un’osservazione della realtà sincera, curiosa, sospesa. La Marisaldi, che per tutta la sua carriera ha utilizzato diversi medium, anche in questa occasione non fa che palesare la propria vivace attitudine trasversale nell’avvicinarsi alla scoperta della vita.
L’esposizione, suddivisa in tre orizzonti, ci parla di una prospettiva varia e corpuscolare, minuta ma preziosa. Quello dal quale veniamo colpiti, è il ritmo, il susseguirsi di quattro tipologie di diversi disegni, la prima serie è liberamente ispirata dalla pellicola storica Il coltello nell’acqua di Roman Polanski, in questo caso gli ampi orizzonti della Polonia, i laghi Masuri, gli infiniti bacini di acqua, vengono reinterpretati dall’artista, riletti e riproposti in una sottrazione segnica, le linee sottili nere tracciano forme, perimetri, ambienti, perone e le scene sono svuotate armonicamente, come fumosi ricordi, solo alcune porzioni si ripetono nello sguardo, come lontane macchie blu, come liquide visioni eteree. Tutto il perimetro della galleria diviene come una grande visione cosmica, una narrazione multistrato dove il mistero della natura della cose si infittisce, nella preziosità del disegno. Il blu è colore che da senso alla percezione, l’unico che si presenta soave a questo appuntamento con lo sguardo.
È così per la serie degli uccelli, dei paesaggi di carta, e quella incentrata su persone e mezzi di oggetti ingombranti e coreografici. Bozzetti utopici, di fantasie e visioni altre, lontane, possibilità e impossibilità su carta, eleganti, leggere, vibranti. Il colore si affaccia raramente e discretamente, quasi mai. In maniera interrotta e sincopata, le serie di disegni si alternano, come uno spartito che percorre l’intero perimetro dello spazio espositivo, Surround infatti può essere interpreta interamente come una partitura contemporanea; il legame con il sonoro non è casuale per la Marisaldi vista e nota anche la collaborazione con Enrico Serotti, da ricordare la performance all’Accademia di Belle Arti di Bologna, presentata da Roberto Daolio del 2008 intitolata Adesso, nella quale i due artisti spostavano scatoloni di cartone in uno scenario pressoché vuoto, innescando così una relazione e una riflessione profonda, nel e dal gesto, nell’ = all’oggetto, e appunto nel sonoro che ne derivava, alla deriva.
Gli scatoloni tornano anche in questa esposizione, nell’orizzonte basso della narrazione infatti sono collocati gli Spostati, scatole di cartone modificate con cartapesta, materiali poveri e facilmente lavorabili, che da sempre hanno affascinato l’artista, utilizzati appunto per feste e sculture effimere. Questi oggetti completamente bianchi, vengono come cancellati, sospesi, messi tra parentesi, se non fosse per la loro forza fantasmagorica di emanare ogni frattempo un toc toc toc che irrompe nella contemplazione pulita e rigorosa. Qualcosa, non ci è dato sapere cosa, vive, anche nell’infinita sospensione total white. Gli Spostati vibrano, contengono segreti, sussurrano esistenza, come quando Italo Calvino a proposito della scrittura affermava: “… qualcosa che cerca di uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione”.
In alto invece, una scultura mobile, si dispiega e vibra nel tempo e nello spazio, proprio sopra al nostro sguardo, una catena molecolare, quasi come fosse DNA, si srotola e si muove ricordando da lontano anche il volo degli uccelli di una cronofotografia. Parte e si ferma, per ricominciare, come una anelito di vota, un soffio. La Marisaldi riesce, con un’economia oggettuale e gestuale, a rendere poetiche oggettività scientifiche. Ecco la bellezza del gesto artistico: regalare un punto di vista diverso sulle complessità infinitesimali del mondo, e la Marisaldi lo fa in punta di piedi dissezionando situazioni della realtà che la colpiscono, che siano una pellicola di un film, un atlante scientifico o uno scarto di merce come l’imballaggio.
Degno di nota, anche il video celato all’interno del ventre di un’altra candida opera, rappresentante un telefono cellulare acceso, al quale attorno, in cerchio, come in un loop infinito tante formiche roteano. Una metafora forte, struggente, nella quale affacciarsi e ritrovarsi oppure perdersi, come perennemente veniamo risucchiati dall’ossessione compulsiva delle immagini fagocitanti e bulimiche, ipertrofiche che oggi ci consumano e assillano.
Allora occorre prendersi una pausa, prendersene cura, osservare a pelo d’acqua ciò che ci circonda, come se l’orizzonte delle cose fosse una lama per ritracciare e ridisegnare i confini di un’ovvietà imbruttita dalla perdita di una curiosità vergine, verso le cose, verso l’altro. La Marisaldi, ad oggi, è uno splendido verso di quell’essere verso.