Che cos’è la poesia, come si legge la poesia? Oggi nel pubblico c’è un sentimento ambivalente: da una parte si ha l'idea che la poesia sia un genere letterario sempre più specialistico, per addetti ai lavori, dall’altra non passa giorno senza che si sappia di un reading poetico, una rassegna, un festival, un premio. Per non parlare dei tanti (volenterosi) poeti che con Facebook hanno trovato editore e pubblico. La diffusione dei social media ha allargato oltre misura la possibilità per ciascuno di mostrare a tutto il mondo qualcosa che per la gran parte è (e dovrebbe restare, aggiungerei) un diario intimo, una confessione privata: è un paradosso, certo, ma è solo uno dei tanti di cui si nutre la poesia.
Intanto, è arduo rispondere alla domanda: che cos’è la poesia. Sant’Agostino, a proposito del tempo ha scritto: “Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione, non lo so”. Ecco, questa mi sembra anche la risposta possibile alla domanda sulla poesia: so cos’è, ma non so spiegarlo.
Ma di che parla la poesia? “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” è l’aforisma più famoso di Ludwig Wittgenstein: con ciò intendendo che si può parlare solo di cose di cui si può dimostrare la verità o la falsità. E del resto, per Galileo, la lingua di Dio è la matematica, che sola può rendere universale qualunque descrizione dell’universo visibile.
Invece, la lingua poetica è performativa, crea qualcosa (“sia la luce… e la luce fu.”), non è descrittiva o definitoria (“sia un x tale che…”). Quindi, per la ricerca poetica (sì, la poesia è soprattutto ricerca) non torna utile la lingua della scienza, compiuta ma esclusiva perché vuole o può parlare solo delle cose di cui parla, bastando, per così dire, a se stessa. La lingua della poesia non è tautologica, non racconta ciò che sappiamo già, ma crea nuova, inaspettata conoscenza. In questo senso, è la “scommessa sulla trascendenza” di cui parla George Steiner, perché crede che ci sia qualcosa al di là del definibile e ne ce ne parla (ancora un paradosso).
Ma, per dire ciò che non è altrimenti dicibile, serve appunto una lingua affrancata dalla sintassi della ragione e del senso comune; una lingua inclusiva come una galassia in formazione, che si espande in ogni direzione e aggiunge nuovi sensi alle parole. Una lingua che dice non solo ciò che si può dire, ma anche ciò che è meramente concepibile, fino alle soglie dell’ineffabile o anche dell’inconcepibile.
C’è la possibilità (la speranza, il desiderio…) che la poesia sia dunque la lingua degli angeli? Certo è la lingua dei demiurghi, forse è la lingua stessa di Dio. Il Dio che crea, non il Dio galileiano che governa l’universo; “I poeti sono i segreti legislatori del mondo”, ha scritto Shelley.
Si può paragonare una singola poesia a una partita a scacchi, considerarla un gioco le cui regole sono però nascoste. Il segreto per capire una poesia è dunque scoprirne le regole, penetrare il “gioco linguistico”, smontarlo e rimontarlo. E se leggere una poesia è come guardare una partita a scacchi, più si è bravi, più si gode della bellezza del gioco dei grandi maestri. E nella poesia contemporanea (meno “penetrabile” ai più), questo gioco è ancora più difficile, perché le regole vengono create dal poeta praticamente ogni volta, ad ogni componimento.
Una poesia, insomma, è un concentrato di parole, pensieri, emozioni, prosodia, metrica, figure retoriche. Un ordito fitto, fatto di fili da dipanare, un meccanismo che, per funzionare, deve rivelare qualcosa ad ogni nuova lettura. Se non ti parla, se non aggiunge niente a ciò che già sai del mondo o di te stesso, se non ti “innamora”, allora semplicemente non funziona.
Se funziona, se insomma è “bella”, una poesia ti può anche non prendere a prima vista. A volte ci vuole tempo per capire il gioco e per goderne fino in fondo (ammesso che ci sia un fondo). Non è come leggere il giornale, non sono semplici parole su una pagina: leggo, mi piace, non mi piace, passo oltre. Ma l’unico modo per leggere la buona poesia è proprio questo: coltivare la calma, mettere al bando la fretta, allontanare l’impazienza di passare alla successiva. Non si può avere premura: vi è una latenza nella poesia che si manifesta solo quando si legge con una quieta attenzione, con meditazione, direi perfino con raccoglimento.