7 maggio
Almeno credo. I numeri mi trovano impreparata. Comunque siamo agli inizi del mese di maggio. Di questo sono sicura. E piove. Piove, piove, piove. Da tre mesi piove quasi quotidianamente. Non ne posso più. Ho scoperto, così, di essere anche meteoropatica. La pioggia mi deprime. Sto vivendo in assenza. E in questo momento sono presa inoltre da un senso di colpa assordante. Valentina ha chiesto di prendermi cura, nel pomeriggio, di sua figlia Allegra perché doveva andare a Faenza. Valentina è mia figlia e Allegra è mia nipote e ha sei mesi. Avevo deciso di lavorare e quindi le ho detto che non potevo. Impietrita, immobile paralizzata, non ho fatto niente.
Ho iniziato a scrivere alle 18 e mi sembra di essere fuori tema. Fuori dal tempo reale. In queste giornate avverto l'insopportabile sensazione di una profonda separazione tra me e la dimensione del presente. Sono catturata da un'oppressione dello spirito che impedisce alla mia immaginazione di prendere forma; senza motivo mi sento priva di interessi e di iniziative. Non solo; vivo gli aspetti spiacevoli della vita - la pioggia che non mi permette di andare in bicicletta lungo l'argine del fiume o il prossimo controllo medico - come eventi dolorosi e insormontabili. Mi capita sempre più spesso di interrogarmi sul senso e anche sul non senso delle cose che mi circondano e non mi ci ritrovo più. In questo momento mi è difficile, quasi impossibile, incontrare un avvenimento che mi riguarda, un avvenimento che è mia presenza. Che mi appartiene. Osservo disperata la pioggia che scende e penso a Valentina e alla piccola Allegra a Faenza e mi chiedo perché mi sono negata. Forse in me esiste la possibilità di non percepire più niente.
Oggi mi pare che non sia una gran bella giornata ma d'altra parte, al mio tempo interiore è impossibile riconoscere, nel futuro, anche prossimo -questa notte, domani - una, seppure minima, appartenenza. Ora le cose stanno così.
8 maggio
Questa è un'altra giornata, anche il suo aspetto è diverso da quello di ieri. Non piove più. Tregua. Ho disdetto l'appuntamento con Gerardo e sono salita sul mio destriero. La bicicletta. Corro via. Lascio la città e vado verso i tappeti infiniti della mia campagna. Acqua nei fossi, il fiume è in piena, la chiusa sputa acqua e forma vortici possenti. Ne sono attratta ma oggi non voglio morire. Devo andare e ancora e ancora. Corro via. Al lato sinistro i campi sono vestiti a festa. Solo i grandi telai della terra possono tramare e ordire tappeti così vasti. Lo sguardo non ne vede i confini. Si. Il verde in primavera predomina sugli altri colori ma dove l'agricoltore non ha gettato anticrittogamici la terra ci regala sfumature gialle e rossi papaveri immersi nel verde. Qui, lungo l'argine del fiume, vedo la crescita in tutta la sua gradualità. La natura compie il gesto del dono. Apre le sue vie - illimitate. La primavera, in questa giornata e dopo tanta pioggia, ama il germoglio più del fiore, lo stelo più del fiore, la foglia più del fiore.
Ovunque è visibile l'atto irripetibile del germogliare. Come in cammino, ora, la primavera si prepara a mettersi in fiore in una esaltazione di cespugli, rami, steli, foglie. Intorno a me il puro gesto della crescita. Dopo il riposo invernale, nella primavera, avverto la percezione di una resurrezione. Non tra poco, ma proprio ora. Di questo mi parla la distesa di tappeti verdi che nutriti dalla terra si danno, come me, al sole. Di fronte a tanta bellezza rispondo come posso. Tento di contraccambiare. Gli elementi intorno a me pongono quesiti - guarda quanti toni di verde, guarda il vento, le nuvole, l'albero, il nido, il cespuglio, i fiori nei fossi, le vecchie case, le montagne all'orizzonte, guarda, guarda, guarda. Nella scrittura, nelle fotografie, negli acquerelli, negli eventi, la risposta.
Scendo dalla bicicletta, prendo la macchina fotografica, e inizio a fissare nella memoria della macchina quello che vedo. E vedo tappeti ricamati, tappeti a righe, tappeti a quadri gialli e verdi, tappeti dai colori sfumati. Desidero avvicinarmi ulteriormente per rivelarne le trame e la materia ma un grosso cane mi impedisce di procedere. Ritorno indietro e mi accontento della ripresa al limite della strada con i piedi appoggiati per metà sulla terra e l'altra metà nel vuoto della scarpata. I piedi si trovano esattamente dove si trova la mia testa; anche lei, in equilibrio instabile tra la solidità della terra e la paura di quel vuoto che a volte opprime le mie giornate, soprattutto quando piove. Ma continuo ugualmente a fotografare e a scrivere. Infatti, dopo molto tempo, ho compreso che i pensieri che scorrono così lievi quando "in un'aria diversa" guardo le cose della natura, se non li fermo subito nella scrittura, se ne vanno veloci con il vento. Quindi prendo dalla borsa un piccolo taccuino e prendo nota. È sufficiente una parola. Quando vado in bicicletta non seguo mete. Il mio è un percorso dello spirito. Dimentico preoccupazioni, impegni e spariscono angosce e malanni.
9 maggio
Quelli che ieri erano germogli oggi sono fiori di acacia, Se avessi con me le forbici li raccoglierei e questa sera li friggerei dopo averli passati nella pastella. Nella mia strada sono comprese le tentazioni. Potrei raccoglierli anche senza forbici. Mi fermo. No, procedo, non riesco a digerire i cibi fritti. Procedo per la mia strada in una esaltazione di profumi. Questa mattina ho anticipato di un'ora il mio viaggio quotidiano. Me la prendo calmissima. Già sono lenta come una lumaca e quando "me la prendo con calma" sono quasi ferma. La velocità non mi appartiene, semplicemente non la conosco e non mi riguarda. Invece di procedere, giro in tondo, vado a sinistra e fotografo i solchi dei miei tappeti terrestri, vado a destra e appoggio il naso nei fiori di acacia - me li mangio con gli occhi - guardo il fiume in piena, prendo appunti.
Le sacche della bicicletta sono piene dell'inutile; borsone borsette maglia di lana sciarpa impermeabile e altre cose che riposano là in fondo da mesi. E, in continuazione, metto e tiro fuori macchina fotografica, penna, quaderno, chiavi, fazzoletti. Ma non ho fretta. Anzi, nonostante la primavera non sia la mia stagione, vorrei un tempo immobile. La primavera infatti, come ho già detto, è la condizione della crescita nell'atto irripetibile del germogliare.
Gli antichi vedevano negli esseri umani quattro umori. Il sangue che imita l'aria aumenta in primavera e domina nell'infanzia. Forse è per questa ragione che osservo con la stessa tenerezza il germoglio, la piccola pianta e mia nipote Allegra. Trovo in questi esseri viventi una stretta parentela. Giorno dopo giorno conquistano nuovi spazi; in loro c'è la condizione essenziale della crescita. Ogni ora che passa; qualche novità. A loro mi abbandono e sento e ascolto e vedo l'azione potente dell'essere appena nati. Ma la condizione della crescita non mi appartiene. La mia stagione è l'autunno. La bile nera, ovvero la melanconia, imita la terra, aumenta in autunno e domina nella maturità. Mi trovo sulla soglia della vecchiaia e quindi a volte mi ritrovo in bilico tra la melanconia e la collera che appartiene appunto alla vecchiaia. È qui la mia dimora. Quando torno a casa, dopo una visione così intimamente legata alla profondità della mia essenza umana, mi arrabbio regolarmente con gli automobilisti e dopo aver mangiato una mela e cinque noci, stremata, vado a letto e me ne sto lì immobile; dimentico quella che sono e la vita mi scivola via. Non è niente. Ma percepire - il niente, il non essere - è ancora una volta essere. Essere una figura melanconica, appunto.
12 maggio
Questa è una mattina piena di luce. All'alba sono stata svegliata da un gran botto seguito da un acquazzone. La pioggia ha poi ceduto il suo primato al vento e ora sopra la mia testa viaggia, insieme a me, il cielo d'Irlanda. Non ho mai visto le montagne così vicine e il verde dei miei tappeti muta il suo tono e forma il movimento delle onde. Le nuvole viaggiano veloci e governano questo mare verde; oggi, insieme ad una luce che rivela il mai visto, sono le protagoniste del mio viaggio. E ancora, la primavera come il tempo dell'infanzia. Mentre guardo le prime colline e ne riconosco le diverse sfumature, mi rivedo bambina, correre e abbandonarmi all'inclinazione di quei tappeti di velluto. Squarci di azzurro intenso. Il sole appare e sparisce prigioniero delle nuvole e del loro volo. Non so più dove guardare. Giro la bicicletta e contro vento me ne ritorno a casa.
Per Ildegarda di Bingen, le donne melanconiche sono mutevoli come il vento e i loro pensieri vagano qua e là; spesso si sentono colpite da malanni tormentosi... vede inoltre la melanconia in relazione con la condizione umana dopo la Cacciata: "ciò che ora è bile scintillava allora come cristallo; ciò che ora è melanconia brillava come un'alba... Poi lo splendore dell'innocenza si oscurò... e gli occhi divennero ciechi".